29-08-2023 ore 20:12 | Rubriche - Costume e società
di Andrea Galvani

Tra gli ospiti del rifugio san Martino per Vivere ancora: ‘Il dolore degli altri è dolore a metà’

“Strada, carcere, strada. Alla fine è andata così”. Il rifugio di san Martino è un crocevia di esistenze. Nel periodo invernale accoglie persone senza fissa dimora. Rappresenta un luogo di abbraccio e custodia. Di restituzione. Esercita una potente attrazione per quelle persone che conoscono il peso di ogni passo e hanno il volto e l’anima segnata dal tormento. Per Vivere ancora, il progetto di Cremaonline e Centro ricerca Galmozzi dedicato alle situazioni di fragilità del territorio cremasco, abbiamo avuto la possibilità di incontrare ospiti, operatori e volontari del servizio.

 

La regola di vita

Marco è arrivato al rifugio dalla comunità. Un giorno come un altro ha “alzato le mani” ed è stato espulso: “è giusto, è una regola di vita”. Alle spalle “una lunga storia di tossicodipendenza. Eroina e cocaina”. Sostanze fameliche, ti divorano dentro, a morsi. Senza alcun appiglio “ti fai terra bruciata”: non passa che un attimo, poi “mi son ritrovato da solo”. Eppure “sono fortunato, perché a 50 anni, a parte qualche acciacco, sto ancora bene”. Uscendo dal rifugio prende il treno e visita altre città. Perché ad ogni risveglio c’è un giorno che lo attende. “La mia giornata? La giornata sono lunghe passeggiate. Lunghe passeggiate”.

 

Il luogo comune

Abdelkarim al rifugio gestito dalla Caritas ci è arrivato direttamente, senza tappe intermedie. Prima di trovar posto, però, ha dormito in macchina “uno o due giorni”. Come se il tempo dell’attesa finisse in un soffio, chiudendo gli occhi e sospirando nel silenzio della speranza. Cullando il desiderio di eliminare il tempo, di tornare a quell’istante in cui siamo tutti uguali. Senza alcuna distinzione. Ha un contratto di lavoro, “ma trovare l’affitto è difficile”. Il motivo? Quello infamante, che brucia sottopelle, quello che nessuno vorrebbe gli fosse appiccicato addosso. Il luogo comune: “perché sono marocchino”. E la ‘colpa’ di qualcuno finisce col pesare sulla testa di tutti. Il suo viaggio ha una direzione e uno scopo. “In Marocco non c’è un lavoro sicuro, dove sei assunto, regolare. La maggior parte dei lavori sono in nero. È per questo che sono venuto qua”.

 

La colpa

Marco il periodo del Covid l’ha trascorso in carcere a Lodi: all’improvviso il contagio e “in meno di tre giorni eravamo uno a Bollate, uno a Opera, l’altro a san Vittore”. Sparpagliati, come le carte del mazzo gettato a terra con rabbia. E di punto in bianco devi ricominciare tutto. I contatti con la famiglia sono gravosi. Il legame di sangue non si scioglie, sono le scelte sbagliate, gli accidenti, il senso di colpa e la vergogna a sigillare la separazione, a togliere all’aria la possibilità di scorrere fra gli anfratti. A tenere distante ciò che per natura vorrebbe invece esser prossimo. Finisci in quella che “non è più vita”: devi reagire, porti degli obiettivi e lottare per raggiungerli. La vita insegna che da solo non si salva nessuno. Per questo è essenziale smussare gli angoli del proprio carattere, accogliere. Comprendere che “il dolore degli altri” non può e non deve essere sempre “dolore a metà”.

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