La sua agenda visiva è appesa al frigorifero della cucina. È piena di colori e di immagini. Di sogni. Perché quelli migliori si raccontano anche in silenzio. Con poche parole, tanti disegni e la forza di sorridere, nonostante la sclerosi tuberosa. “Il mondo di Jacopo – spiega mamma Francesca Guerra – è impegnativo: scuola, terapie, attività”. Le sue giornate, viste dall’esterno, appaiono monotone, tutte programmate. Come copie in bianco e nero. Una sequenza di immagini mute e asettiche, per gli altri. Una serie di emozioni provate, per lui che “parla” con le forme, apprende azioni quotidiane con impegno e vive a colori. In gergo tecnico quell’ammasso di simboli che ha rivoluzionato la sua vita si chiama comunicazione aumentativa e alternativa (CAA), ma per lui non è altro che la voce, un filo che lo lega alla realtà e non lo abbandona più.
Venire al mondo
Jacopo è piombato in questo mondo in una calda giornata d’agosto, ma circondato dalla nebbia. “Dallo svolgimento dell’ecografia morfologica era emersa un’anomalia cardiaca. Al settimo mese, nel corso di una degenza per minaccia di parto pretermine, ho sentito per la prima volta parlare di sclerosi tuberosa. Non sapevo di cosa si trattasse, mi sono aggrappata alla speranza ed ho cercato di concludere la gravidanza serenamente. Non ho pensato neanche per un attimo di abortire. Non c’era certezza diagnostica, ho vissuto per del tempo con l’idea che potesse trattarsi della forma meno grave. Jacopo è nato a Bologna ed è stato subito curato per la patologia cardiologica. Io l’ho visto solo il giorno dopo, attaccato ai macchinari. Ero felice, ma mi sentivo in colpa per come l’avevo messo al mondo. Senza il calore di un abbraccio ed il suono della mia voce”.
Come una sentenza
Le mura anonime dell’ospedale erano il luogo perfetto per custodire la distanza e l’apprensione di quel giorno. La gioia di essere mamma, invece, meritava il profumo di casa e il rumore di una routine totalmente rivoluzionata. “Mi sono perdonata. Ho recuperato il tempo perso con il mio bambino tra le braccia”. Lo dice piano, Francesca, senza troppi dettagli, che custodisce dentro di sé, come si fa coi ricordi più intimi. Quelli che non si porta via neanche la peggior tempesta. Neanche la sclerosi tuberosa. “I mesi passavano e, ad un certo punto, ho sentito l’esigenza di vederci chiaro. Mi sono rivolta alla pediatra e le ho chiesto se fosse possibile fare delle analisi per avere una diagnosi”. Esami su esami per mettere a tacere le paure ed abbracciare la verità. Fredda e dirompente. Come una sentenza. “Ricordo bene quel giorno: stavo allattando Jacopo in uno sgabuzzino, quando i medici mi hanno raggiunta e si sono rivolti a me come se l’esito fosse scontato. Ma io non ero pronta, ho pregato per del tempo che Jacopo non avesse un ritardo intellettivo. La loro sicurezza nel pronunciare certi termini scientifici mi ha spaventata, dovevo ancora accettare l’esito positivo della risonanza magnetica, mentre per loro era tutto definito”. Tutto riassunto in due semplici parole: sclerosi tuberosa.
Sclerosi tuberosa
Nota anche come malattia di Bourneville, la ST è una patologia genetica rara, caratterizzata dalla formazione di tumori benigni, che “interessa cute, unghie, denti, reni, sistema nervoso, occhi e polmoni”. Si legge questo sul sito del Ministero della Salute. Si tace, invece, il dolore, la paura, il coraggio, la forza. La vita quotidiana. Dovuta ad una mutazione genetica occasionale, la forma di ST con cui Jacopo convive è associata a crisi epilettiche, tratti autistici, ritardo dello sviluppo cognitivo e del linguaggio. “La neuropsichiatra mi aveva messo in guardia. La prima crisi si è manifestata all’età di 8 mesi. Dovevo filmarla. Ce l’ho fatta, ma mi sono sentita come divisa in due: da un lato, la mamma che soffriva, dall’altro, la donna appassionata di scienza, fredda, tenace, interessata”. Due emisferi dello stesso mondo. Della stessa madre. “Sono laureata in farmacia, non sono del tutto estranea all’uso di questa terminologia, ma quando si tratta di tuo figlio è diverso”.
Intendersi
Tutta un’altra storia. Scandita dal silenzio, che spesso tace, a volte parla, raramente urla. Ma sempre vive. “Fino ai suoi cinque anni, Jacopo ha vissuto in un silenzio assordante. Non parlava ed io faticavo a capirlo. Poi ha iniziato a dire qualche parolina e mi ha permesso di entrare nel suo mondo”. In punta di piedi, senza la pretesa di mettere ordine, con il solo desiderio di capire. Di accettare. “Quello dell’accettazione è un processo lungo, faticoso e non ancora concluso, anche se il fatto di poter parlare con lui mi ha permesso di generare un’alleanza senza tempo”. Non importa se tra le parole si infilano le immagini, i silenzi, le incomprensioni, gli sforzi. Ciò che conta è comprendersi, anche mimando. “Quando non ci capiamo, Jacopo fa il mimo. In qualche modo, io e lui, riusciamo ad intenderci”. Spesso la loro intesa parla un linguaggio incomprensibile agli altri, fa il rumore delle note ed il suono della vita che non si arrende. “Jacopo è appassionato di musica. Nel tempo ho tradotto testi di canzoni con l’aiuto della comunicazione aumentativa e alternativa”. Da Coez a Branduardi, passando per Nek, fino a Jovanotti e al suo inno all’amore, dal titolo ‘Per te ’. Lo prende tra le mani, Francesca. In copertina spicca la foto del cantante, da parte la fotografia di una mamma che stringe tra le braccia il suo piccolo, accompagnata da note musicali. Di mezzo il racconto della realtà. Fino a una promessa: ‘È per te ogni cosa che c’è’. Accanto un disegno. Ma la sostanza non cambia: è sempre amore.
Paure, conquiste e promesse
“So che Jacopo è diverso”. E che la vita è anche là fuori. “A volte temo il suo silenzio perché lo rende indifeso ed ho paura che gli altri non possano capirlo”. Francesca ha imparato sulla sua pelle che la felicità è un concetto relativo. “Nei giorni scorsi ero al settimo cielo perché, dopo un importante lavoro sull’apprendimento delle quantità, Jacopo ha afferrato due cucchiaini, come gli era stato richiesto”. La sua gioia si percepisce, al pari della consapevolezza. “Per gli altri i successi dei figli sono diversi, quella speciale sono io”. Per lei è normale insegnare a Jacopo a preparare lo zaino della piscina con le fotografie degli oggetti in sequenza: cuffia, costume, accappatoio, shampoo, bagnoschiuma, ciabatte. Per gli altri, no. “Jacopo ha una sorella, si chiama Elisa, ha quattro anni e mi ha fatto capire cosa significa essere una mamma normale”. Uguale alle altre. Almeno a metà. “Ogni sua conquista mi mostra la differenza, ma voglio vivere Jacopo per ciò che è. Con le sue difficoltà, i suoi silenzi, i suoi sorrisi. La sua voglia di non arrendersi”. Sposta lo sguardo sulle immagini e ne fissa una, sempre la stessa: ‘È per te ogni cosa che c’è’. Questa è la sua promessa.