È passato un mese e sembra una vita. Il ‘coprifuoco’ scatta alle 18. Scandito dai rintocchi del Duomo (quanto ci mancano le campane a festa), in centro storico resta solo il rumore delle serrande, il passo di pochi ritardatari diretti a casa. Nei parchi non c’è più il lieto chiacchiericcio: sono chiusi. Nessuno più fa la vasca tra via piazza Garibaldi e l’antica piazza san Martino. Le due sole biciclette per strada hanno vita facile, ma non c’è divertimento senza dover fare lo slalom alle Quattro vie. Vuoti i negozi, chiusi i bar, i pub, i ristoranti e le trattorie. Aperte le fabbriche, col consueto carico di fatica, al quale si aggiunge l'angoscia di chi resta a casa.
Una lunga attesa
Negli angoli della città ragazzi e ragazze non si tengono più per mano, sbaciucchiandosi sugli scalini o alla fermata del bus. Il tempo è improvvisamente tornato a scorrere lentamente. Molti non sono riusciti nemmeno a salutare i propri cari o gli amici di una vita. Forse ci sarà tempo dopo, per trovare una via d'uscita al dolore. Le persone fanno lunghe file fuori dai supermercati. Uno alla volta. Ciascuno con se stesso. L’arrivo dell’esercito è stato salutato con sollievo; i militari consentiranno di operare al meglio ad uno stuolo di medici e infermieri cubani. I nostri medici sono stati prima abbandonati, quindi lodati via social e infine, al taglio del nastro, lasciati di lato. Negli asili e nei parchetti i giochi per i bambini aspettano il ritorno delle urla e delle risate. Insegnano ad aver pazienza. Dobbiamo imparare. La felicità non è poi molto distante.