“C’è sempre un compromesso. La gente vuole ascoltare quello che già conosce, mentre l’artista generalmente vuole suonare i pezzi nuovi. È una specie di baratto: devi soffrire un numero sufficiente di brani nuovi per poter ascoltare quelli vecchi. Con me è sempre stato un po’ così, ma queste nuove sono canzoni che valgono”. Con queste parole Peter Gabriel presentava il suo nuovo tour a pochi giorni dall’inizio. Il primo tour solista dal 2014, che ha toccato l’Italia il 20 maggio e il 21 maggio, rispettivamente all’Arena di Verona e al Forum di Assago.
Il compromesso
I/O Tour, dal nome del prossimo album di futura uscita, ma di cui ancora non si conosce la data di pubblicazione. Tornare in scena dopo un decennio con una tournee in cui per la metà delle quasi 3 ore di durata vengono suonati brani inediti (alla meglio pubblicati da poche settimane) o è un atto di autolesionismo o un atto di un artista estremamente consapevole del valore dei brani che sta presentando. Per quanto mi riguarda, propendo per la seconda. È vero, in molti casi potrà mancare la confort zone in cui solitamente ci si rifugia andando ad un concerto, quel luogo accogliente della propria memoria, di suoni che conosciamo e che vogliamo ricondurre alle nostre esperienze o ricordi. Tuttavia, forse è anche il modo più autentico in cui un’artista può manifestarsi.
Pari bellezza e dignità
Non tanto con un insieme di brani ben selezionato da una carriera cinquantennale, ma con la curiosità di mostrarci il diamante grezzo del suo processo creativo non ancora sedimentato nelle nostre memorie. Personalmente, ritengo che i nuovi brani presentati abbiano pari bellezza e dignità di quelli del glorioso passato, meritando di prendersi metà della scaletta. La restante parte del concerto invece alterna classici sparsi dalla sua carriera solista, con una predominanza dall’album “So”. E ovviamente, con buona pace per le “vedove” dei Genesis, nessun brano tratto dai suoi trascorsi nella band. Non che si tratti di una novità, la sua carriera solista si è spostata già da fine anni 70 su altri orizzonti musicali, più vicini alla world music e le esibizioni ne sono la logica coerenza.
Tradizione e innovazione
L’inizio vede da solo Peter Gabriel in scena, con una tuta da lavoro arancione che legge in italiano un foglio avvisando che lui potrebbe essere l’avatar di se stesso, dieci anni più vecchio e con 10 kg in più, mentre il suo vero io è in spiaggia ai Caraibi “somigliante a un dio romano. Subito dopo viene raggiunto dai suoi musicisti, per due canzoni in assetto acustico, illuminati da una luna artificiale. Tecnologia e ambiente, tematiche a lui sempre molto care. Un concerto che potrei definire perfetto, nella sua commistione di suoni, luci e visual. È incredibile la sua capacità di rendere fruibili in un formato pop suggestioni musicali che del pop non hanno nulla. Grande alchimia anche fra i componenti della band, che si muove tra tradizione e innovazione con l’immancabile Tony Levin, Manu Katchè, David Rhodes, Don McLean, Richard Evans, Marina Moore, Josh Shpak ed una incredibile Ayanna Witter-Johnson che duetta con Gabriel in Don't Give Up. Un ritorno sulle scene che dimostra come sempre la voglia di sperimentare di un musicista che ha contribuito a forgiare la musica del 900.