“Sono stato tra i pochissimi a non ammalarmi. E ancora non ho capito perché”. Lo dice con un filo di voce, quasi fosse una colpa. Con la mascherina appoggiata sulle labbra, le gambe accavallate, le braccia strette in un abbraccio. Durante il racconto, negli occhi torna la grande paura di ammalarsi, di infettare le persone care. Attilio Galmozzi ha anche cambiato voce. L’emozione è troppo densa, non c’è spazio per l’ironia. È insolitamente profonda, senza la sferzata in dialetto. Senza la battuta che strappa un sorriso anche nelle situazioni più complicate della vita. Attorno fa capolino il silenzio, tra i suoni della natura e le risate dei bambini. Il brulicare delle persone nella zona del mercato è vissuto con disincanto. Troppo ingombrante quello che è appena stato vissuto. L’emergenza Covid è ancora appiccicata addosso. Molti impareranno a convivere col dolore. Per altri non sarà possibile.
Un argine al dolore
Le maschere ne nascondevano i lineamenti, finendo per contrappasso ad esaltarne l'umanità, moltiplicare la capacità di sostenersi reciprocamente. Sulle tute, oltre ai loro nomi, facevano disegni. A volte piccole caricature. Per creare un argine al male con uno sprazzo di felicità. È di questo che racconta il medico del pronto soccorso e l’assessore all’istruzione. Di quella miriade di piccoli gesti, della resistenza a una realtà che improvvisamente è diventata un incubo. Scandita dalle sirene delle ambulanze ad ogni ora del giorno e della notte. Coi cremaschi agghiacciati, in casa, a sentirle sfilare. A domandarsi: ‘se tocca a me cosa faccio?’. Un ospedale trasformato via facebook ‘in struttura specializzata Covid’. A parole. Mentre a pochi chilometri strutture blasonate – certo la pubblicità sa far miracoli - non venivano nemmeno sfiorate dai pazienti infetti. Pardon, dai contagiati.
Rispetto e solidarietà
Attorno al Maggiore la città si è stretta con quella discrezione che la contraddistingue. A testa alta, costi quel che costi. Offrendo tutto ciò che è necessario. Tutto quel che serve. Tutta se stessa. Fino alla fine. E in cambio ha ricevuto l’aiuto di medici e infermieri, professionisti navigati e specializzandi: persone abituate a rispondere presente. A rimboccarsi le maniche. Da Palermo a Belluno, da Cuba alla Guyana. Attilio Galmozzi si è specializzato in oncologia e dopo averla odiata con tutto se stesso, “ha finito con l’innamorarsi della medicina d’urgenza”. Ombrianese, di quella parte di Crema dove il sole tramonta e non sorge, dove gli spazi aperti dei campi sono stati coperti dal cemento e i giorni (tutti i giorni) son fatti di fatica. È cresciuto in una famiglia che gli ha insegnato rispetto e solidarietà. Con l’esempio. Famiglie in cui basta uno sguardo, dove parla anche un respiro. Durante l’emergenza Covid non ha saltato un giorno di lavoro. Lui e molti altri, certo non tutti, possono fissare negli occhi chiunque nel dirlo: “nessuno di noi si è tirato indietro”.
La potenza della vita
In questa lunga intervista che confluirà in un progetto che Cremaonline condivide col Centro di ricerca Alfredo Galmozzi, parla dell’inarrestabile potenza della vita in quello che lui e le colleghe hanno definito un girone infernale: fuor di metafora s’è trasformata in “un bicchier d’acqua, una carezza, una parola gentile a chi non aveva nessun altro da salutare”. Dentro quelle tute c’erano padri e figli, madri e sorelle. A loro sono stati affidati un ultimo pensiero, un mezzo, luminoso sorriso dopo una vita intera. Una responsabilità troppo grande per non essere condivisa. Ora Galmozzi e alcuni colleghi hanno deciso di raccontare, Di offrire un contributo concreto per migliorare la sanità pubblica. Per non darla vinta all’oblio. Come bucaneve che spuntano sfrontati in mezzo al gelo. “Sono stato tra i pochissimi a non ammalarmi”: ecco forse perché. C'è ancora molto da fare. Tutti insieme. Ognuno per ciò che gli compete. Non un briciolo di meno, anche solo un pizzico in più.