A quarant'anni di distanza dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro sono apparsi numerosi libri che tentano una ricostruzione o un bilancio di quegli eventi tragici e di quella stagione così tormentata per la democrazia italiana. Uno in particolare mi ha colpito, per la forte partecipazione personale alle vicende narrate e per lo sguardo che si leva dalle pagine, ad osservare di nuovo quegli eventi e a riflettere in modo più vasto e generale: si tratta di Un atomo di verità, di Marco Damilano. L'autore aveva dieci anni all'epoca dei fatti, e per una singolare ironia della sorte passava ogni mattina con il pulmino della scuola da via Mario Fani, dal luogo preciso del rapimento di Moro, in cui furono uccisi i cinque agenti della scorta.
Una memoria segnata
La vita personale e la storia s'incrociano immediatamente, per quei misteriosi percorsi che segnano in modo indelebile i destini: già una volta il padre aveva mostrato all'autore bambino quell'uomo austero mentre pregava in una chiesa; un giorno la tragedia dell'agguato e del rapimento segna la memoria in modo definitivo. Lo sguardo dell'autore è molto preciso e partecipe nel ricostruire quell'epoca, la temperie di quei giorni, civile e politica, l'operazione rischiosa e coraggiosa di Moro che aveva ottenuto il consenso del Partito Comunista a sostenere dall'esterno un governo monocolore democristiano guidato da Andreotti. Erano ben presenti le minacce esplicite ricevute da Kissinger e forse anche da altri esponenti dell'amministrazione americana, per deplorare i suoi tentativi di coinvolgere i comunisti nel governo, inizialmente solo con un appoggio esterno.
La linea della fermezza
Le logiche di Yalta, la rigida separazione delle sfere d'influenza americane e sovietiche, erano ancora pienamente e severamente in vigore; meno di cinque anni prima un golpe militare sostenuto dalla Cia aveva spazzato via in Cile il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto. L'autore è lucido ed esplicito nel riconoscere che Moro era troppo in anticipo rispetto ai tempi: più di dieci anni prima della caduta del muro di Berlino il suo tentativo era scomodo sia per gli americani che per i sovietici. Le Brigate Rosse trovarono la strada spianata, tutto riuscì loro in modo sorprendentemente facile, ricevettero aiuti insospettati e quasi una sostanziale immunità nonostante errori ed approssimazioni. La linea della fermezza, invocata immediatamente da democristiani e comunisti, facilitò sin da subito i calcoli di chi aveva già deciso la sorte dello statista.
Sciascia e Pasolini
L'autore ricostruisce con pazienza l'atmosfera politica e culturale di quei giorni, e cerca di avvicinarsi alle figure degli intellettuali simbolicamente vicini al destino di Moro: Sciascia e Pasolini, le immagini del cui corpo straziato precedettero di pochissimi anni le immagini del corpo senza vita di Moro, nella Renault 4 rossa. Sciascia aveva affrontato in Todo Modo e affronterà poi nell'Affaire Moro il dramma del potere e Pasolini aveva parlato del vuoto del potere in Italia, accusando direttamente la Democrazia Cristiana per la strategia della tensione e invocando un processo.
Oscuro desiderio di sangue
Anni dopo, Moro, difendendo gli accusati per lo scandalo Lockheed, aveva tuonato: “Non ci faremo processare nelle piazze”. Scrive l'autore che in quegli anni c'era una pulsione di catarsi, di purificazione; un oscuro desiderio di sangue. Pasolini aveva sentito quel pericolo, e ancor più forte il giorno prima di morire: suggerì a Furio Colombo di intitolare così l'intervista appena rilasciata: “Perché siamo tutti in pericolo”. Il libro ripercorre quegli anni con intensità e partecipazione, con il passo misurato ed il respiro di un vero libro di storia, e individua i personaggi e i punti nodali che segnarono gli eventi: Francesco Cossiga, ministro degli Interni, incapace di trovare Moro, ma protagonista di una carriera sempre in ascesa; Mino Pecorelli dell'Agenzia OP e il generale Dalla Chiesa, forse gli unici a leggere integralmente il memoriale di Moro ritrovato nel covo di via Monte Nevoso, che pagarono con la vita la loro conoscenza dei fatti; Bettino Craxi, l'unico a tentare di costruire una trattativa con le Brigate Rosse, incredulo di fronte al rigore disumano dei comunisti e a quello interessato dei democristiani, che molti anni dopo perderà tutto il proprio potere nel tramonto della Prima Repubblica, visto dall'autore come la chiusura di un cerchio, apertosi con la morte di Moro.
Il rifiuto delle responsabilità
Il sottotitolo del libro, non a caso, è: Aldo Moro e la fine della politica in Italia. Si dice testualmente, a pagina 241: “Nell'anti-politica che stava per arrivare c'era una gran voglia di auto-assoluzione collettiva, il rifiuto di assumersi le proprie responsabilità. L'opposto di un destino collettivo”. Moro, in una delle sue ultime lettere, a cui i colleghi politici vergognosamente tentarono di sottrarre legittimità e valore, scriveva: “Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall'altra parte un atomo di verità ed io sarò comunque perdente”. Quell'atomo di verità, secondo l'autore, è mancato in quei 55 giorni del 1978, nei decenni successivi sul suo rapimento e “manca oggi a una politica che si percepisce sempre come onnipotente, ma che non possiede un atomo di verità sul Paese, su se stessa, ed è dunque destinata ad essere perdente”.