09-02-2014 ore 11:21 | Rubriche - Fuori dal coro
di Alessandro Grassi

Francoforte. L’abbattimento dell’AfE-Turm, il trauma irrisolto dei bombardamenti americani, il problema dell’identità e la ricchezza prodotta dalla cultura

Pochi giorni fa è stata fatta esplodere la AfE-Turm di Francoforte.: 116  metri di cemento sbriciolati in meno di cinque secondi. Il tutto davanti a più di 30 mila persone che esterrefatte hanno ammirato la potenza distruttiva dell’esplosivo, lo spettacolo della distruzione. La passione per questa pratica, in Germania, appare per chi viene dall’Italia quanto meno perversa. Quasi un feticismo. Da noi si conserva tutto, qui periodicamente fanno esplodere qualcosa. Irresistibile è il pensiero di collegare il fatto ad una coazione a ripetere legata al trauma irrisolto dei bombardamenti americani. Una specie di messa in scena della guerra. Ma questa è un’altra suggestione.

 

Evento simbolico

L’abbattimento della AfE-Turm è sicuramente un evento simbolico, ma prima del discorso generale sulle eredità del conflitto mondiale, lo è soprattutto in relazione alla storia che raccontava. Il grattacielo infatti era l’edificio più rappresentativo della Goethe Universitaet, l’università della città. Costruito negli anni settanta rivaleggiava con i grattacieli che allora già riempivano la skyline francofortese. Erano anche gli anni della contestazione studentesca, quando la città non era nota solo per le banche, ma per la sua produzione culturale che spaziava dal teatro alla filosofia, al cinema alla letteratura. La AfE-turm insieme alla Studi-Haus (la casa dello studente) era stato lo sfondo di queste proteste. Con il passare del tempo, soprattutto dopo le costruzioni degli anni Novanta e Duemila era diventata obsoleta, quasi piccola accanto alle torri della Fiera o della Commerz Bank (le due attualmente più alte in città). Ora l’università ha abbandonato l’ex quartiere operaio di Bockenheim e la torre è stata abbattuta.

 

Svuotata la carica sovversiva

È stata trasferita in un nuovo campus, mentre quello vecchio verrà sostituito da condomini (certi) e spazi sociali dedicati ad associazioni culturali o eventi (non certi). Nel nuovo campus non ci sono grattacieli a rivaleggiare con la potenza della banche, rimaste come unico biglietto da visita internazionale di Francoforte. Il nuovo campus è stato costruito accanto alla vecchia sede della IG-Farben, industria che ebbe il suo massimo splendore durante gli anni del Reich, tristemente famosa per aver prodotto il gas da usare nei campi di concentramento. I palazzi nuovi sono bellissimi, ultra moderni, pulitissimi e il complesso ad un primo sguardo sembra veramente una versione ricca e migliorata del fascistissimo campus della Sapienza a Roma. Svuotata della sua carica sovversiva l’università si è fatta piccola tra le banche, al loro servizio e pulita come mai nessuna università probabilmente è stata. È anche vietato attaccare i manifesti.

 

 

Il rapporto con la memoria

Il rapporto con la memoria da parte dei tedeschi non è esattamente “risolto” come spesso si dice in Italia. Ma forse osservare la questione (sia in Italia che in Germania) in termini di memoria non è la prospettiva migliore. Della memoria ognuno fa quello che vuole in base a quanto è più comodo. In Germania, come ovunque, alcune cose tendono a venire dimenticate o ricordate nella forma più consona. L’università “ribelle” è stata cancellata, la sua cultura è stata addomesticata. Già emarginata nei corsi universitari, con il trasferimento del campus è stato eliminato pure il supporto fisico della memoria del fervore studentesco degli anni d’oro della cultura francofortese. Tecnica più raffinata della riscrittura della storia si garantisce un risultato eccellente da conseguire sul lungo periodo. Vi sono altri abbattimenti e costruzioni interessanti a Francoforte, legati alla vaga quanto importante sfera della “produzione culturale”.

 

L’identità di Francoforte

Negli anni Ottanta in piena finanziarizzazione, nell’epoca del riflusso, il sindaco di allora con una lungimiranza miope decise che era arrivato il momento di risolvere uno degli annosi problemi della vita cittadina Francofortese: la mancanza di un’identità propria. Il “problema” – sempre che di problema si possa parlare – è facilmente desumibile da alcuni dati che non sfuggirebbero nemmeno all’osservatore più distratto. In primo luogo Francoforte, ahimè, è stata rasa al suolo dai bombardamenti americani. In secondo luogo Francoforte vanta essere una delle città più cosmopolite del mondo: quasi il 50% della sua popolazione o è straniera o è figlia di stranieri e vanta 180 etnie diverse tra i suoi abitanti, il tutto per un numero di residenti estremamente ristretto: circa 700 mila (negli anni Ottanta la chiamavano la metropoli più piccola del mondo). In terzo luogo Francoforte ha una popolazione di circa 300 mila pendolari (cioè circa un terzo delle persone che incontrate per strada durante una giornata lavorativa non vivono in città). Si capisce che in pratica quasi tutti son stranieri in una città così. Chi non ha più la sua città, chi non ci è nato, chi non ci vive che per otto ore al giorno. La soluzione decisa allora fu quella di puntare sulla cultura. Ricostruirono un po’ di centro storico e finanziarono l’apertura di circa una decina (!) di musei. Non solo banche e finanza, che inevitabilmente non portano che mero denaro, ma piuttosto cultura che crea identità. E porta denaro.

 

 

Le regole del gioco capitalistico

Dal punto di vista economico, date le regole del gioco capitalistico la Germania e le sue classi dirigenti sono sempre state molto lungimiranti. Il business della cultura non poteva che nascere dalle ceneri della cultura anti-business, proprio in una città che di questa cultura era stata anche uno dei centri più attivi. Così vennero costruiti questi musei e la cosa ha portato molto denaro e ha anche dato molti sbocchi per le finanze dei facoltosi francofortesi. Il problema dell’identità non sembra però essere stato molto risolto. La cultura su cui si è puntato è quella che negli anni Settanta gli studenti avrebbero detto “borghese”. Meravigliosa, ma profondamente intimistica, incapace di creare tessuto sociale in una città che ne ha estremamente bisogno. Invece che puntare sulle culture di protesta che tanto avevano aggregato nei decenni passati, si è optato per una cultura simile alla nuova università: ripulita e pacificata. Ma non era forse ovvio che l’investimento culturale di Francoforte non avrebbe prodotto che una società fondamentalmente selettiva? Non era un investimento fondamentalmente economico?

 

La ricchezza prodotta dalla cultura

In Italia spesso ci si racconta che la cultura è la nostra più grande risorsa e che lì bisognerebbe investire. Indubbiamente è vero, la nostra eredità culturale è poco sfruttata dal punto di vista economico. Ma siamo sicuri che la ricchezza prodotta dalla cultura intesa come risorsa economica sia un bene per la cultura stessa? Fedeli alla passione distruttiva che si diceva prima, i musei costruiti negli anni Ottanta sono stati abbattuti ad inizio anni Duemila. Erano vecchi, dovevano essere ammodernati. L’università ha abbandonato il quartiere popolare per trasferirsi in un campus fondamentalmente isolato. Il prezzo che la cultura francofortese ha dovuto pagare una volta diventata un business è stato elevato. È una città ancora ricca di cultura, ma solo per chi è in grado di fruirne, una cultura-merce auto-selettiva spesso in base al ceto sociale definito sia attraverso il reddito che attraverso l’istruzione (che si accompagna come ovunque nel mondo occidentale anche ad una vera e propria educazione alle “buone maniere”).

 

Mettere radici

Un puro consumo. Così inevitabilmente è incapace di radicarsi in una società troppo dinamica e connessa con i flussi finanziari da un lato e troppo rigida e disciplinare dal lato della storia dell’amministrazione politica. L’investimento economico del comune di Francoforte è enorme, i budget dei musei e dei teatri è stratosferico per qualsiasi istituto italiano. La cultura ha bisogno dei soldi, ma qui a Francoforte è evidente che allo stesso modo la cultura non può essere una questione di soldi.

1559