07-05-2023 ore 20:10 | Rubriche - Musica
di Matteo Raise

Garbo. Visioni di un canta immagini, dalla new wave all’intelligenza artificiale. L'intervista

Abbiamo avuto il piacere di intervistare, in occasione della promozione del suo nuovo album, Nel Vuoto, un’icona della nostra scena musicale, Renato Abate, in arte Garbo. Uscito lo scorso 21 aprile per Incipit Records e distribuito da Egea Music, l’album sta raccogliendo unanime consenso dalla critica musicale e rappresenta un nuovo tassello nel quarantennale percorso artistico del musicista comasco. L’album è disponibile sulle piattaforme digitali, in cd e in vinile. Per il Record Store Day del 22 aprile 2023 è stato inoltre possibile prenotare, solo nei negozi di dischi indipendenti, un’edizione speciale di 300 LP numerati con copertina alternativa, attualmente sold out.

 

Buongiorno Renato, grazie del tuo tempo. Vuoi introdurci al tuo nuovo album, “Nel vuoto”? Nei miei ascolti, ma sentiti ovviamente libero di contraddirmi, ho notato un ritorno a sonorità maggiormente new wave e decadenti rispetto ai tuoi ultimi album, specialmente per quanto concerne il lato B che, come già in molti hanno scritto, rimanda a delle sonorità mitteleuropee anni 70, che ovviamente ben conosci e hanno avuto importanza nella tua formazione musicale. È stato un qualcosa di ponderato o piuttosto di istintivo? Pensi possa aver influito il quarantennale del tuo album di esordio A Berlino... va bene e il riconfrontatici in occasione del tour celebrativo?

“Parliamo di un disco in cui è maggiormente presente la mia impronta. Il mio disco precedente risale a 7 anni fa, ed è stato concepito insieme a Luca Urbani, portando una commistione dei nostri interessi e interessato maggiormente da sonorità elettriche. In questo disco invece riprendo il filo del mio mondo e quindi risulta, pur essendovi comunque presenti delle collaborazioni, più personale. Non è necessariamente un disco new wave, puoi trovarvi condensate le mie influenze in una scorribanda tra passato, presente e futuro, per raggiungere un principio fisico a me caro di curvatura dello spazio tempo. Miravo a un’ idea atemporale. Nel disco puoi trovare delle riprese di miei vecchi brani, come Sembra, riarrangiato per l’occasione in una chiave più intima e To Mars , un brano che scrissi per un gruppo che producevo a inizio anni 90, i Derivando, da me mai pubblicato su disco. Sono esempi di questa atemporalità. Chiunque puo sentirli senza collocarli in un contesto storico ma in un significato filosofico più profondo. Questo è il tema di fondo del disco. Il tema frontale è invece una analisi delle forme del vuoto, da quello interiore, a quello esterno, fino al vuoto culturale in cui ci troviamo. Viviamo una desertificazione tangibile e riscontrabile anche dal cosidetto “uomo della strada”. Percepisco l’ isolamento, che per un’ artista è un tema estremamente sensibile. Non viviamo più un’ era di movimento culturale, ma di grande isolamento creativo secondo me. Per comodità commerciale poi si identificano delle correnti, ma la finalità è di etichetta, non certo culturale.

 

La tua musica va di pari passo alla tua attitudine. Non posso non menzionare il tuo percorso artistico. Da giovane anima dark lombarda negli anni 70 hai migrato verso la Berlino divisa dal Muro, hai registrato il tuo primo album con una major, per approdare fino al Teatro Ariston, con due partecipazioni. Ho rivisto le tue esibizioni al festival di Sanremo negli anni ’80 e, specie per quanto concerne Radioclima (con cui vincesti il premio della critica), a riguardarla a posteriori porta a sensazioni di straniamento alla David Lynch. Come tu stesso hai ripetuto più volte, senza snobismo, ma ti sentivi un uovo fuori dal cesto. Le tue esigenze artistiche ti hanno portato ad allontanarti da quel mondo, per lasciare intatta la tua integrità e libertà musicale. A distanza di 40 anni non hai mai avuto rimpianti, e puoi fregiarti di uno degli album più particolari e affascinanti della musica italiana, quale “Up the line”, per il quale non hai mai negato la tua predilezione. Se penso ad altri artisti tuo coevi, per un certo modo di intendere e concepire la musica e lo show business non puoi che ricordarmi alcuni tra i miei preferiti, quali Alice, David Sylvian e il recentemente scomparso Sakamoto.

“Sono peraltro tutti artisti che conosco sia musicalmente sia personalmente. Quello che dici è corretto, ovviamente è stato tutto veloce e non cercato, mi sono trovato nel mondo dello showbiz italiano “nazionalpopolare” di cui ho molto rispetto, ma da cui non mi sento identificato. Le mie scelte artistiche erano di altro tenore, anche se mascherate da canzoni. Le mie stesse canzoni erano diverse da quello che circolava. Centravo poco rispetto al mondo di Pippo Baudo o Raffaella Carra. Per quanto personalità importanti, ero molto più vicino a quanto accadeva all’estero, quantomeno come attitudine e modalità di azione artistica e creativa”.

 

I tuoi stessi testi erano diversi da quello a cui si poteva essere abituati. Erano più evocazioni di immagini che ricerca di un testo articolato in strofa e ritornello.

“Non mi sono mai definito un cantastorie, ma un canta immagini. Ad esempio hai citato Up the line, che è un momento di sperimentazione più pura e meno canzonistica. Mi avvicino più ai concetti di cinema e di fotografia, rispetto a quello di una storia romanzata tipica del cantautore. Per me è più un indagare esistenziale attraverso umori e immagini”.

 

Riascoltando i tuoi esordi, quello che mi ha sempre affascinato è come i tuoi album siano stati assolutamente attuali nelle sonorità rispetto a quanto succedeva nel resto del mondo. Altri album iconici della nostra new wave, risultavano recepire un suono e un attitudine nuova per il nostro paese, ma già in qualche modo vecchia per degli standard europei, se rapportati a come evolveva la scena estera. Non è invece il tuo caso, essendo tu stato in grado di recepire, le fascinazioni e lo Zeitgeist di quel momento storico nel suo accadere. Si parla molto degli anni 60 come dell’età dell’oro della musica rock, ma almeno per quanto mi riguarda gli anni del post-punk sono stati una fucina di talenti e sonorità che, se ben coltivate, ci restituiscono un bacino culturale a cui ispirarci ancora oggi, forse anche maggiori rispetto alla decade che li ha preceduti. Hanno costituito una sorta di anno zero, una rivoluzione culturale.

“Centri un argomento a me molto caro. Non si tratta di aggiornamento rispetto a ciò che avviene nel mondo in tempo reale, ma di far fluire le intuizioni. Può anche essere discutibile a livello di gusti personali, ma ho la fortuna di cogliere quello che vibra ed è difficile per me essere in ritardo; Semmai ho una visione che anticipa nel bene o nel male le cose. Il problema che abbiamo sempre vissuto in Italia è che molti artisti o presunti tali si accodano a mode che arrivano da fuori dal decennio prima, ma che in Italia fioriscono dopo. Questo vale anche per la canzone d’autore, comparsa in Italia sulla scia di quanto avveniva in America o in Francia, ma in ritardo, un po’ come accennavi prima. Non mi interessava capire cosa accadesse all’estero, mi interessava capire cosa stavo vivendo. La cosa bella di quell’ epoca, e questa è una testimonianza importante, è che non avevamo internet, non potevamo sapere esattamente cosa accadeva all’estero. Le mie ispirazioni sono i miei zii artistici, i Velvet Underground, i Roxy Music, Lou Reed solista, David Bowie, la generazione precedente alla mia che ha sperimentato in ambito pop, rock e altro ancora. David sylvian, quando iniziai, non sapevo chi fosse, muoveva anche lui i suoi primi passi quando iniziai io. Stessa cosa per i The Cure o i Depeche Mode, che sono anche più giovani di me. Robert Smith, che conosco molto bene, ha due anni in meno di me. Parlando con questi artisti, sono tutti d’accordo con me e hanno vissuto quello di cui stiamo parlando. Da Simon Le Bon a Robert Smith, passando per Dave Gahan, avevamo gli stessi riferimenti. Le mie prime composizioni, con cui pensai di vivere la musica attivamente, si collocano intorno al 74-75. Esordivo a fine 70-inizio 80 come loro, che iniziavano a diventare popolari nei propri ambiti territoriali. Esplodendo a livello globale, divennero in seguito famosi anche in Italia. Quel tipo di musica da noi arrivava poco, erano artisti che non comparivano alla Tv popolare o in radio, era difficile per noi conoscergli agli esordi. Per quanto attiene il tema che citavi sulla nostra rivoluzione culturale, credo abbia contribuito la nostra vena sperimentale. Posso spiegartelo attraverso degli esempi. Mi accingevo a scrivere il mio secondo album, “Scortati”, e mi telefona una sera un amico musicista e primo importatore italiano di uno strumento pazzesco all’epoca, il computer Fairlight. Quella notte mi telefonò e mi precipitai da lui per provarlo. Era una macchina gigantesca, occorreva una station wagon per portarla in giro, e costosissima, circa 150 milioni di lire. Era una Macchina che solitamente si affittava negli studi di registrazione. Cominciammo a lavorarci come bambini su un giocattolo. Questo per dirti quanto abbia contribuito alla nostra esplorazione dell’arte l’avvento dell’elettronica e la possibilità per noi di affrontare la creatività attraverso nuovi mezzi che potevano ampliare la nostra visione d’insieme. Altro aspetto era la nascita del concetto di videoclip, un qualcosa che faceva diventare il cantante uomo di teatro o di cinema. Si investiva nell’immagine e ci si apriva alla possibilità creativa a 360°”.

 

Nel nuovo singolo Come pietre (la prima traccia di Nel vuoto) hai utilizzato l’intelligenza artificiale per la predisposizione del videoclip. Di fatto, è uno dei primi esempi di videoclip interamente generato attraverso l’intelligenza artificiale. Le sole eccezioni sono composte dal tuo volto e dal tuo corpo, che sono gli unici elementi realmente presenti di fronte alla macchina da presa. Le restanti inquadrature sono frutto dell’immaginazione dell’IA, tramite implementazione di un algoritmo. Quali sono le tue opinioni riguardo all’intelligenza artificiale? Negli anni 80 iniziano a prendere piede orientamenti culturali quali il cyberpunk, e il rapporto uomo-macchina, se non esplicitato nelle tematiche, molto spesso era implicito nelle sonorità che utilizzavate, penso ad esempio a Metamatic di John Foxx. L’incontro tecnologico che la tua generazione preconizzava è arrivato? E se sì, è come ve lo aspettavate? Come artista, ti senti minacciato dalle IA?

“La tecnologia non è mai stata minacciosa per chi sa cosa farne. Qualsiasi mezzo che amplifichi, sviluppi o migliori la mia possibilità creativa è benvenuto, occorre ovviamente sapere come usarlo. Se posso utilizzare uno strumento nuovo che mi porta da un punto A ad un punto B in modo più comodo e in un modo che mi permetta di ottenere risultati migliori, ben venga. Deve avere quella funzione, non deve sostituirmi, perché non può farlo. La considerazione che sia un male tutto ciò che sta avanzando tecnologicamente è in mano a noi, che dobbiamo gestirla. Non vedo la tecnologia in senso negativo. Nel caso concreto, lo strumento è stato usato senza lasciarci sopraffarre da cose inutili. Il risultato lo trovo interessantissimo, è la visione di una realtà nuova, di un qualcosa che possiamo descrivere meglio e che mi aiuta a creare un mondo, una visione nuova e alternativa. La sua funzione è di conoscenza, nel far conoscere a più gente quello che faccio, e si ferma lì. Non penso alla funzione di questo videoclip come opera d’arte, ma semplicemente al suo fine divulgativo. Il momento creativo per me rimane il disco, e quello che comunico attraverso la parola e il suono”.

 

Il 21 settembre 1981 hai avuto l’onore di vedere il tuo album di esordio pubblicato nello stesso giorno e per la stessa etichetta (La voce del padrone) di Battiato, con cui hai condiviso la relativa tournée promozionale come suo supporter. Riguardandoti oggi, quale artista italiano o internazionale, anche non appartenente alla scena musicale, che hai incontrato trovi che direttamente o indirettamente possa aver ampliato il tuo pensiero o fornirti ancora oggi degli spunti di riflessione?

“Forse tutti hanno avuto qualcosa da darmi, consapevolmente o inconsapevolmente. Per esempio, parlando di Battiato, ho avuto modo di vivere tre mesi di fila giorno e notte insieme a lui e Giusto Pio. Non avevamo all’epoca esigenze comuni, se non la sperimentazione. Ci univa la nostra possibilità e volontà di allargare i nostri orizzonti culturali. Questa esperienza mi ha lasciato moltissimo, ho imparato davvero tanto da Franco come artista in quei mesi e da quello che stava vivendo. Così come dal confronto con altri artisti e dalle loro opere. Da un punto di vista umano, ritengo importanti tutte le persone che ho incontrato. Ti ho fatto l’esempio di Franco perché è stato quello più palese, ma chiunque è stato importante. Se sei curioso e un ascoltatore, inevitabilmente chi sta parlando con te porta un’influenza. Lo stesso nostro incontro ci crea un incidente conoscitivo e uno scambio di visioni. Noi siamo il frutto del nostro percorso e di chi incontriamo”.

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