“Varcare la soglia della speranza”. Alla casa d'accoglienza Giovanni Paolo II della diocesi di Crema, in via Toffetti, le opportunità si costruiscono con l'essenzialità. La struttura reca i segni del tempo, l'ingresso è piccolo. Il calore abbondante. Ci si sente a casa, dopo pochi istanti. “Interveniamo quando il sogno del futuro è andato in frantumi. Perché c'è sempre l'opportunità di ripartire”. Massimo Montanaro e Claudio Dagheti della Caritas diocesana siedono nella “sala polifunzionale”. Due divani arancioni, tanti libri, infinite storie sembrano abbracciare chi ha perso tutto. Casa, lavoro, famiglia, fiducia. Ma mai la dignità. “Spesso viene schiacciata dalle fatiche della vita, ma la dignità non si perde. È insita in ciascuno, la riconosciamo e offriamo opportunità”. I valori in Caritas sono chiari: fiducia e assenza di giudizio. “Sono baluardi importanti per respirare la magia dell'incontro. E per costruire relazioni” spiega Massimo. “I legami fanno la differenza. Sempre, soprattutto quando ci si deve prendere cura delle fragilità”.
Incontrarsi e vivere
Non si tratta solo di offrire un tetto, ma di costruire un progetto. “Ad oggi, tre dei nostri ospiti lavorano”. Ricostruiscono la vita giorno dopo giorno, mattone dopo mattone. “Chi, per svariate ragioni tra cui l'età avanzata, non può lavorare, si dedica alla cura della casa, degli spazi comuni, del cibo. Ciascuno qui vive il proprio percorso personalizzato”. Non lo subisce. Lo vive da protagonista. Si alternano momenti di incontro individuali e di gruppo, attimi dedicati alla fede, al teatro, alla convivialità. “Nella struttura sono 25 i posti disponibili. Alcuni ospiti giungono qui dopo una breve esperienza al rifugio san Martino, il dormitorio con sede in via Civerchi, altri possono essere inseriti direttamente in struttura”. In via Civerchi l'approccio è diverso. “Spesso è impossibile fare delle progettualità”. Le emozioni sono la chiave d'accesso. “Il rifugio è l'incontro” ammette Massimo. “Senza paracadute” aggiunge Claudio. “Nudi” ribatte ancora Massimo e specifica “è il posto in cui ciascuno corre il rischio di lasciarsi andare”.
L'importanza del volontariato
Al dormitorio, come in tutti i servizi Caritas, è fondamentale la figura del volontario. “Il volontariato – spiega Claudio alla vigilia della Giornata internazionale dedicata – è un'opportunità di crescita in primo luogo per chi lo pratica attivamente. Spesso è inserito in un percorso di fede o mosso da motivazioni personali diverse. È prezioso per tutti”. Un'opportunità per dare una risposta alla solitudine. “Ciò che accomuna chi si rivolge ai nostri più svariati servizi è una profonda solitudine” ammette Claudio. “Spesso le arrabbiature sono determinate dall'amore non corrisposto” continua Massimo. “Non esistono persone cattive, esistono persone che si trascinano delle ferite gigantesche ed incolmate, che a volte le portano a fare cose molto brutte. Sono persone ricche perché fanno risuonare cose che appartengono anche alla nostra vita”. Non si tratta solo di fornire loro un riparo dal freddo per la notte, ma di dare l'opportunità di un dialogo. “Deve essere un'occasione condivisa, colta da entrambe le parti. Al di là di ogni pregiudizio. “Al rifugio accogliamo anche persone irregolari, l'obiettivo è donare calore”.
Al tempo del Covid
La finalità è esserci, infilarsi nelle difficoltà, accogliere. Anche in piena pandemia. “Durante la prima ondata i servizi sono aumentati. È stato avviato il centro diurno, la mensa in Civerchi, il centro di ascolto ha dato sostegno telefonico, la distribuzione dei pacchi si è fatta al domicilio” spiega Claudio. La diocesi ha messo a disposizione alcuni fondi. “Si è deciso di avviare il fondo San Giuseppe lavoratore Chiesa con voi, grazie al quale sono stati distribuiti sul territorio oltre 300 mila euro a supporto di 200 nuclei familiari, di cui più del 40% nuovi poveri”. Sono “persone ordinarie che hanno investito parte della loro vita in settori oggi fermi”. Sono persone che chiedono aiuto. A volte in silenzio. Nella stanza c'è un attimo di vuoto. La porta si apre. Il calore si avverte meglio con un tè caldo donato e stretto tra le mani.
Ripartire
Ora è tempo di ascoltare la voce di chi vive la casa d'accoglienza, ne abita gli spazi, ne respira i silenzi e si sente accolto. “La torta che accompagna il tè l'ho cucinata io” racconta Francesco. “Ero un panettiere, prima. Poi ho toccato il fondo o forse anche più del fondo, ma qui mi hanno insegnato che c'è sempre uno spiraglio”. Che è sempre il momento giusto per ripartire, per riprovarci per tornare a vivere. “Con umiltà. Ora lavoro e mi dedico agli altri. Qui mi sento a casa, ma sogno un futuro diverso. Lo voglio costruire. Ci voglio credere”. L'esperienza di Francesco, al pari di quella di Giovanni (nome di fantasia) è partita dal rifugio San Martino. “Sono un giocatore d'azzardo” ammette Giovanni. “Ero benestante, poi ho perso tutto. Sono ripartito dal dormitorio, ora vivo qui. Mi sento a casa, siamo una famiglia: strana, diversa, ma piena di calore”. Non c'è spazio per il giudizio. “Gli operatori sono al nostro fianco ci aiutano a restare fedeli al percorso, ma non giudicano”. É una strada da percorrere per “vivere il futuro là fuori e tornare a sedere sul divano di casa mia. Anche se questa casa resterà per sempre una tappa importante della mia vita”. La tappa della rinascita, del cambiamento. Ché, oltre la soglia, la speranza vive.