04-07-2023 ore 19:26 | Rubriche - Musica
di Matteo Raise

Il ritorno in Italia di Bob Dylan è phone free. Ricordi e impressioni dalla prima data milanese

“Ci sono una moltitudine di modi in cui recensire un concerto di Bob Dylan, e probabilmente nessuna di queste è sbagliata. Una moltitudine, come gli infiniti giochi di specchi in cui Robert Allen Zimmerman ha deciso di scomporre e mostrarci la sua carriera e la sua poetica. Un continuo rincorrersi di strade al crocevia, di quelle da tradizione blues americana in cui, come Robert Johnson, puoi incontrare il diavolo al bivio.

 

Un ricordo

In questa moltitudine, scelgo quella più personale. Vidi per la prima volta Dylan nel 2005, il mio primo concerto in assoluto, e, a distanza di 18 anni, l’ho rivisto per la quarta volta nella prima delle due date milanesi del suo mini tour italiano, a supporto dell’ ultimo disco di inediti del 2020 Rough and rowdy ways. Mi è difficile considerare Dylan alla stregua di un qualsiasi altro cantautore, perché l’esperienza musicale che può trasmettere è forse la parte meno influente del suo retaggio, e di quello che ha significato nella mia formazione culturale. Dylan, per il me stesso adolescente, è stato la finestra da cui scoprire l’intero universo sociale e letterario del secondo novecento. Mentre negli stessi anni i Rolling Stones erano una cover band blues e i Beatles appagavano i pruriti degli adolescenti, Dylan con quel getto di vomito all’anfetamina che divenne Like a rolling stone codificava il nuovo modo di intendere la musica e la letteratura, l’anello di congiunzione tra la mia amata letteratura beat e il rock. Non l’ho mai considerato alla stregua di un Jagger o di un Lennon, ma semmai è per me molto più facile accostarlo a Jack Kerouac, Allen Ginsberg o Lawrence Ferlinghetti. Sono fermamente convinto che se non avessi scoperto Dylan, parte della mia formazione culturale sarebbe stata ben diversa. Ma Dylan non è solo questo, rimane l’artista che più di ogni altro ha saputo raccontare l’America e che oggi ne incarna l’anima storica. Dal folk di protesta alla svolta elettrica, dalla ricerca della spiritualità alla riscoperta delle tradizioni americane. Più di 60 anni di carriera in continuo divenire. 

 

Il concerto

Tutto questa premessa è importante per comprendere l’approccio a un suo concerto. Comprare il biglietto per un suo spettacolo e pensare di assistere a un greatest hits della sua carriera è il modo migliore per restarne delusi. Il suo eterno gioco di specchi si evidenzia anche in questo. Non dà al pubblico ciò che si aspetta, non lo ha mai fatto, ma ciò che vuole dargli. Non è un concerto dei Rolling Stones (li adoro, sia chiaro) in cui da 40 anni a questa parte la scaletta è più o meno invariata, ma un concerto in cui, più che portare in scena la propria musica, porta in scena sé stesso. Le setlist di questo tour è composta nello specifico dalla quasi totalità del nuovo album (9 canzoni su 10) e qualche perla minore del suo sterminato repertorio. Come sempre, le sue canzoni dal vivo risultano completamente stravolte rispetto alle versioni di studio, ma del resto non è importante come suonano. Per quanto mi riguarda, ne ho ascoltate talmente tante versioni diverse in questi anni, da aver dimenticato perfino come suonano su album. Tuttavia, nella scelta dei brani e nell’esecuzione sul palco rivivono i fantasmi dell’America, dall’epopea dei pionieri ai giorni nostri. Dylan ha raccolto l’eredità degli hobo sui predecessori ed è diventato lui stesso il messaggio che porta in scena. Una colonna d’aria, un tutt’uno con la sua ispirazione, come lo definì una volta Allen Ginsberg. Come da sua abitudine pochi saluti, poche frasi di circostanza, quasi 2 ore di concerto ininterrotte. Nonostante l’età avanzata, la voce l’ho trovata migliore rispetto all’ultima volta che lo vidi nel 2015. Eccezionale la band di accompagnamento. Il concerto è stato un evento phone-free, per volontà dell’artista. I cellulari all’ingresso del teatro venivano posti in un involucro sigillato, che veniva riaperto unicamente all’uscita.

 

Io non sono qui

Difficile per me trovare un momento migliore di un altro, ma dovendo scegliere, il mio momento da brividi è stato sul finale dell’ultima canzone, Every grain of sand. Nell’attimo in cui Dylan ha imbracciato per l’unica volta la sua armonica per un assolo, mi è tornato alla mente il finale del biopic a lui ispirato, I’m not there, in cui si rifletteva sull’immortalità della musica tradizionale e di come la gente si sforzasse invano di possederla. Neanche Dylan è eterno, lui non potrà sopravvivere alla sua musica, che resterà immortale. Ma finché vivrà, non ci sarà mai alcuna sua canzone più importante di lui stesso".

1978