03-07-2023 ore 19:05 | Rubriche - Musica
di Nino Antonaccio

Red Hot Chili Peppers a Milano: l’essenza del rock, tra i Primal Scream e gli Skunk Anansie

Restano stamani, dell’evento andato in scena all’I-Days milanese, una t-shirt (rigorosamente con le date del tour, altrimenti non vale) e nella mente una serie nutrita di immagini e suoni. Quello andato in scena il 2 luglio è stato davvero uno spettacolo imponente sia per la quota dei 70 mila spettatori presenti che per la quantità di materiale proposto sul palco. Arriviamo sul posto e intuiamo subito il senso dalla macchina organizzativa perché alle 17 in punto parte il primo gruppo, come da cronogramma (dobbiamo parlarvi di Studio Murena? E se ci concentrassimo su quelli che seguiranno? Faremo così, i fans del gruppo mi scuseranno, anche se devo dire che mi ha colpito il jazz emanato dagli strumentisti, non altrettanto l’ennesimo profluvio rap che impegna il frontman).

 

Un pezzo di storia

Ore 18: sul palco sale un pezzo di storia. I Primal Scream invadono gli spazi fisici e sonori con cori e strumenti, capitanati da un Bobby Gillespie in forma, da quarant’anni in sella (viene spontaneo se vedi un concerto in un ippodromo). Gospel e ritmo a manetta, partendo dall’evergreen Movin' on Up, la trascinante prima traccia di Screamadelica, continuamente rievocato anche dall’iconica copertina (che ognuno/a di voi ha incontrato nella propria esistenza, magari senza saperlo). Il fatto che i programmatori abbiano rispettato anche l’orario del secondo live non ci fa dubitare del fatto che siano puntuali per il terzo.

Arrivano gli Skunk Anansie

Avevano scritto 19.45. Infatti. Le masse decidono di avanzare, incuranti di chi stava sdraiato sull’erba secca a far risalire la pressione approfittando della poca ombra data dagli adiacenti spettatori in piedi. Da questo momento occorrerà prendere la posizione definitiva per il resto del concerto, arretrare è sconfitta, scordatevi un’altra puntata al bar o in bagno, ci penserà lo spettacolo a dissetarvi e a prosciugarvi allo stesso tempo. Arrivano gli Skunk Anansie, e si sentono, potenti e aggressivi il giusto. I provvidenziali schermi ci consentono di osservare i particolari dell’esibizione vocale e muscolare di Skin e della sua band, che si produrranno in un lungo set dove alterneranno classici e novità. Occorre dire che concorreranno ad elevare non poco il coinvolgimento del pubblico presente, che fino a quel momento partecipava distratto, come se chi si alternava sul palco facesse da sfondo alle chiacchiere e alle code per le birre.

 

Una consolante certezza

Si poteva dubitare che non si rispettasse l’ultimo e più importante orario in scaletta? Alle 21.30, preceduti da una ouverture epica, inizia l’esibizione dei Red Hot Chili Peppers, e quello che ti aspetti arriva. Californication con diversi estratti, per esempio, una manciata dagli ultimi due album del ‘22 e alcuni hit rodatissimi. Flea è una certezza, un basso suonato col suo stile fa il sound della band da sempre, e qui ne abbiamo una consolante certezza, perché chi va a sentire vuole questo, a ogni concerto che si rispetti, accetta sporadici tradimenti e non ama troppi scarti, quindi siamo tutti felici. Aggiungiamo il fatto che Anthony Kiedis ormai non stecca più come un tempo, quando i RHCP salivano sul palco per un’oretta mostrandosi scostanti e infilando performance non memorabili del cantante, che evidentemente era più giovane e scapestrato, come si usa nel rock.

 

L’essenza del rock

L’anagrafica gli consente di prendere le note con più ragione e sentimento, quindi poche sbavature, o almeno niente di che, il che consola i fans e fa ballare in modo consapevole ogni presente fino alla fine, davvero. Del resto, riuscireste a restare immobili con Give It Away? John Frusciante dice sempre la sua, producendosi in una serie di brevi assoli significativi, come quello in Carry Me Home, mentre Chad Smith fa suonare i tamburi da par suo e saluta tutti/e al termine, ringraziando al microfono dopo che gli altri compari scompaiono. Un gesto che conclude (bene) uno spettacolo che ci ricorda la necessità dei grandi concerti: la loro permanenza è l’essenza del rock, senza sarebbe impossibile farne leggenda.

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