L’epidemia pare stia rallentando. Il virus è subdolo e sembra non aspetti altro che si abbassi la guardia. Fosse anche solo per pochi istanti. In città il bollettino quotidiano è impietoso. Nelle case, negli ospedali, negli istituti di ricovero. Telefonate e messaggi si susseguono senza sosta per annunciare che ancora qualcuno ‘ci ha lasciato...’. Prima c’era il tempo (diciamo così…) per metabolizzare: si andava ‘a far visita’, c’era ‘l’ultimo saluto’. Ci si stringeva uno all’altra, si ricordavano i momenti felici trascorsi insieme, si superava il freddo col calore umano. Oggi non ci è concesso e il dolore, la perdita, restano chiusi dentro.
La nostra Spoon River
“Anche la nostra Rsa in via Zurla – ha commentato il sindaco di Crema il 31 marzo, giorno di commemorazione delle vittime - ha pagato il suo triste tributo con oltre 60 vittime e poco importa sapere che purtroppo quel 33% di deceduti sul totale degli ospiti è nella media delle strutture lombarde. Vero che non si era preparati e nessuno immaginava un virus così pervasivo e anche che la vita di Comunità nelle Rsa avviene necessariamente in spazi così densamente popolati, che fermare il virus in quei contesti è come svuotare un lago con un secchiello. Ma questo non consola né lenisce le perdite”. Al quotidiano bollettino televisivo, tanto surreale quanto asettico, dei referenti regionali e nazionali si contrappone quanto scritto dall’assessore alla Cultura, Emanuela Nichetti: “Persone, non numeri. Come in un'antologia di Spoon River, raccontare la loro vita rende tutto ancor più triste, perché dà la misura dei talenti e della ricchezza che stiamo perdendo, ma è loro dovuto”.
Adua e Francesco
Sì, è un dovere. Ecco perché nel ricordo riuniamo due persone molto distanti fra loro, che probabilmente non si sono nemmeno conosciute in vita, o chissà, forse si sono almeno sfiorate, perché tutti e due hanno trascorso gli ultimi giorni della loro vita alla Rsa Camillo Lucchi di via Zurla. Adua Marciano (in Paffuti) aveva 81 anni. Non aveva perso il buonumore, era felice quando sua figlia Sonia, insieme a Daniele, le portava una torta fatti in casa solo per lei, oppure se si lasciava scorrere il tempo, stando insieme, sorseggiando un caffè al bar della Rsa. ‘Adua ci ha lasciato il 22 marzo. Non abbiamo più potuto salutarla né vederla. Ma la ricorderemo sempre. Era una donna splendida. Era una donna solare’. Con lei in via Zurla c’era anche Francesco Valcarenghi; classe 1936, non era ‘il mitico bidello del Racchetti’ ma molto di più. Era l’anima della scuola, il custode del labirinto, uno di quegli uomini di cui Borges ha scritto pagine memorabili. Era elegante e molto alto, fisicamente e moralmente. Aveva mani enormi e la voce profonda: si spostava in bicicletta, con un incedere fuori dal tempo. Aveva lo sguardo di chi leggeva dentro. Capiva senza giudicare. Sapeva cosa dire a ciascuno, studenti o docenti. Mai una parola di più. Sapeva parlare con misurata esattezza. Con la sua ferrea bontà e l’educazione di altri tempi (“guarda che se non fai il bravo lo dico a tua nonna!”), incarnava la sua fede calcistica, la 'maestosità granata': insegnava con l’esempio, dava e chiedeva rispetto in egual misura, ma adorava chi era in grado di sovvertire con l’intensità della passione, l’intelligenza e la bellezza. Con la fantasia. Con lui non faceva presa l’antico, volutamente masticato adagio che tanto piaceva per quell’allusione: ‘Os o mèn ènza cazèude polùtlas Odìsseos’. Sorrideva invece di gusto, con gli occhi che sprizzavano gioia, se nel sottoscala – cercando di andare a rubare due fette di salame e un sorso di vino dal leggendario armadietto dell’infermeria – i ragazzotti si nascondevano per intonare: ‘Del resto mia cara, di che si stupisce, anche l'operaio vuole il figlio dottore. E pensi che ambiente ne può venir fuori’.