In Afghanistan si sta verificando “una catastrofe umanitaria”. All'esito del G20 di ieri pomeriggio “c’è stata sostanzialmente una convergenza di vedute sulla necessità di affrontare l'emergenza. Di fatto questo si è tradotto in un mandato alle Nazioni Unite, un mandato di tipo generale di coordinamento della risposta e ad agire anche direttamente. Sul versante degli impegni, “la presidente della Commissione europea, von der Leyen, ha annunciato uno stanziamento di un miliardo di dollari a finanziare la risposta umanitaria che c’è stata nel corso dell’incontro. Anche il presidente degli Stati Uniti ha annunciato un aumento di circa 300 milioni di dollari, dello stanziamento per rispondere a queste esigenze”. Lo ha detto il presidente del consiglio Mario Draghi nella conferenza stampa convocata ieri al termine del G20 straordinario sull'Afghanistan. Secondo Draghi per affrontare la crisi umanitaria saranno necessari contatti con i talebani, non un loro riconoscimento. “L'errore capitale di tutta la vicenda afghana” ha detto ieri sera il giornalista Emanuele Giordana, ospite all'Arci di San Bernardino “ sta nell'incapacità di instaurare una trattativa. Dal 2001 sono state le ragioni del conflitto a governare la situazione”.
L'importanza del dialogo
Dallo scorso 15 agosto, con la caduta di Kabul, “almeno è finita la guerra” continua. “Una guerra che ci è costata in termini di vite umane tantissimo: sono morte 251 mila persone, di cui settemila occidentali, 70 mila soldati afghani, altrettanti pakistani e 100 mila civili, per una media di cinquemila morti l'anno. È una guerra che abbiamo fatto combattere agli altri”. Bastano questi numeri per affermare che “i conflitti armati non solo non risolvono le situazioni, spesso le aggravano. Lo strumento da prediligere è il negoziato: con i talebani bisogna parlare”. “Oggi abbiamo lasciato un paese in cui sette persone su 10 vivono sotto la soglia di povertà. La crisi umanitaria è fortissima. L'Italia attualmente ha deciso che non darà più visti umanitari, al massimo turistici a spese delle persone”.
Ripensare gli strumenti
Questo è “il risultato per una guerra che è durata 20 anni, ci è costata 8.7 miliardi di euro per lo più di spese militari. Teniamo a mente che solo il 5 per cento di questa cifra è stata spesa in azioni di cooperazione civile. Al proposito – chiosa Giordana prima di passare la parola - mi sarei almeno aspettato un dibattito parlamentare serio”. Al suo fianco, Claudio Ceravolo, presidente di Coopi, che ha evidenziato come “in nessun caso la presenza armata è riuscita a risolvere qualcosa. Ha avuto un minimo di utilità nel contrasto al banditismo, ma non ha mai risolto conflitti. Questo esito si è sempre ottenuto con l'intermediazione della società civile terza. Pensiamo, ad esempio, alla pace in Mozambico. È un lavoro lungo e faticoso, ma l'unico che porta risultati”. Sulla stessa linea d'onda anche Sofia Malaggi di Arci Cremona per la quale “la guerra è uno strumento semplice, la società è complessa. Non si può pensare di risolvere situazioni complesse con mezzi semplici. La guerra non fa tabula rasa: la guerra stratifica, pone nuovi problemi. È opportuno esserci, aprire un confronto”.
Parlare con la gente
Il dialogo è “la prima condizione per la cooperazione con un'azione positiva verso la pace” riprende Ceravolo. “Essere con la comunità locale significa avere rispetto, non voler esportare i nostri valori come giusti. Si verifica un fenomeno interessante nei cosiddetti Stati falliti, ossia quelli in cui si registra l'assenza di un governo capace di garantire i servizi minimi. Lì, dove si indeboliscono i poteri centrali, si rafforzano quelli locali: questo, ad esempio, è ciò che è accaduto in Somalia. Il progresso si genera dall'analisi condivisa dei bisogni, con chi quei bisogni li avverte”.
Responsabilità e speranze
“In Afghanistan – riprende Giordana – ci siamo illusi di aver trasmesso valori positivi all'intera società civile, in realtà abbiamo parlato solo al ceto medio. Abbiamo fatto promesse di pace e di sviluppo, totalmente disattese. Oggi la vicenda dei corridoi umanitari rischia di essere dimenticata. La nostra responsabilità nei confronti di queste persone, invece, resta”. “Ma davvero la avvertiamo?” si chiede Sofia. A terra, in un angolo, i disegni colorati degli studenti delle medie di Vaiano Cremasco, in attesa di essere appesi, sembrano volerci dire qualcosa: “è ora di abbattere i muri, non imprigioniamo i colori”.