Siamo nella Milano del 1848, l’anno dei moti rivoluzionari che sconvolsero l’Europa. Nel pomeriggio del 18 marzo, la prima delle celebri cinque giornate, il nobile Filippo Manzoni (nell'immagine sotto), nono figlio di Alessandro ed Enrichetta Blondel, nel giorno del suo ventiduesimo compleanno si reca, incoraggiato dal padre, presso il Broletto per arruolarsi nella guardia civica, un atto sovversivo nei confronti del governo austriaco. Quella sera gli austriaci assalirono il Broletto e catturarono venti ostaggi tra cui Filippo. È questo l’inizio di una storia che arrecò a Manzoni una lunga serie di angosce e preoccupazioni. Filippo era uno dei figli più indocili dello scrittore: studiava legge di malavoglia, era piuttosto spendaccione e i suoi rapporti con il padre erano tesi. Il giorno del suo compleanno fu catturato dalle truppe del maresciallo Radetzsky e subito rinchiuso nel castello Sforzesco. Dopo le cinque giornate, quando gli austriaci abbandonarono Milano, gli ostaggi furono condotti a piedi a Melegnano, poi a Lodi e quindi, con una diligenza, a Crema, al seguito delle truppe del maresciallo. Fu così che Filippo Manzoni nel 1848 si trovò dietro alle sbarre di una prigione cremasca.
Il senso di colpa
Fu solo dopo che il ragazzo giunse a Crema che Manzoni poté avere finalmente sue notizie. Un certo signor Grassi, infatti – che sappiamo vendeva armi agli austriaci – visitò a Crema gli ostaggi e si offerse di prestare denaro e di portare le lettere dei prigionieri alle rispettive famiglie. Filippo colse subito l’occasione per scrivere a suo padre. La breve lettera di risposta di Manzoni, datata 28 marzo 1848, e inviata a Crema, rivela tutta l’apprensione di un padre che sa il figlio in carcere anche un po’ per causa sua: “Filippo mio, come spiegarti la consolazione che ho provata al vedere i tuoi caratteri? Vengo ora dal signor Grassi, che me l’ha rinnovata e accresciuta, assicurandomi d’averti visto proprio in buona salute. Egli ha anche la bontà d’incaricarsi di queste righe, e del sacco da notte che riceverai insieme, con biancheria e panni, che ci ha messi la Bonne. Aggiungo 10 pezzi da 20 franchi, per il caso, Dio voglia il contrario! che la tua assenza si prolungasse”. Sappiamo dunque da questa lettera che Alessandro Manzoni inviò da Milano, per tramite del signor Grassi, della biancheria pulita e del denaro al figlio imprigionato a Crema. La Bonne era una domestica dei Manzoni. Continuando a ricercare tra i carteggi familiari di Manzoni ritroviamo un’altra lettera che ci dà qualche informazione in più a proposito della detenzione di Filippo a Crema. Il 31 marzo 1848 Manzoni scrive alle figlie Vittoria (nell'immagine sotto) e Matilde – che si trovavano a Firenze – per informarle delle recenti disgrazie: “sapete che il caro nostro Filippo è uno di quelli che furono presi al Broletto, e condotti via. Ho avuto ierlaltro una sua lettera da Crema: era sano e fermissimo d’animo; e sono trattati con riguardo. Abbiamo qui ostaggi de’ loro, e persone d'importanza; sicché oltre all’esser chiusi i passi al nemico, abbiamo una malleveria che i nostri ci ritorneranno presto, e che nell'intervallo, Dio lo voglia cortissimo! continueranno a esser rispettati (…). Delle meraviglie di qui non vi dico nulla, perché fino a tanto che non ho abbracciato Filippo, non mi dà il cuore (…). Dio ci renda presto il nostro Filippo! V’abbraccio di fretta”. È evidente da queste lettere che, se anche tra padre e figlio c’era stata qualche acredine, tutto venne perdonato in occasione di questa disgrazia. Manzoni scriveva certamente con l’apprensione paterna ma riesce a mantenere una visione saldamente razionale dei fatti: c’erano buone ragioni diplomatiche – una malleveria – per ritenere che gli ostaggi sarebbero stati liberati.
Nevrosi e panico
Questo fatto non è da dare per scontato: non si deve dimenticare infatti che Alessandro Manzoni fu, nel corso di tutta la sua vita, un grande nevrotico. Come spiega Paolo d’Angelo in un volume recente (Le nevrosi di Manzoni, Il Mulino, 2013) “c’è, nella vita di Manzoni, un lato oscuro, tormentato, faticosissimamente tenuto a bada, ma pur sempre riemergente. Un fondo acuto di nevrosi, di stati ansiosi e di crisi di panico, che lo accompagna tutta la vita, e che non riuscirà mai a vincere”. La successiva lettera di Filippo è del 15 aprile. Il tono è commovente e preoccupato. Fu spedita dalle vicinanze di Innsbruck: “carissimo papà, sua eccellenza il generale Valden, che parte per Milano, s’è gentilmente incaricato di portare qualche nostra riga. Finora ho fatto un viaggio buono; non ho mai sofferto niente, grazie al cielo (…). Voglia Dio ch'io sopporti anche per l'innanzi la mia disgrazia col benessere con cui l’ho sopportata finora. Mio caro papà, abbracciami mille volte tutti i miei cari parenti.Quanta consolazione m'abbia recata la tua carissima ricevuta a Roveredo, tu che conosci il mio core, lo potrai facilmente conoscere. Addio, caro papà, prega per me e accordami la tua benedizione”. Manzoni, evidentemente molto angosciato, scrisse cinque giorni dopo alle figlie Vittoria e Matilde, queste parole: “oh! quanto di core, povero il mio Filippo! (…). La mia lettera, di cui parla, era diretta a Crema, e fu scritta ne’ primi giorni dopo lo sfratto di coloro. Era accompagnata da panni e da un po’ di danaro, e opero che tutto gli sarà stato ricapitato, quantunque non ne faccia menzione. S’era fatti prestare, da quello che mi portò quattro sue righe da Crema, 200 zwanziger, e questi almeno siamo sicuri che gli ha avuti (…). Addio, cara Vittoria, cara Matilde. Non vi parlo d’altro per arrivare a tempo col corriere, e perché quello di cui v’ho parlato è per noi il grand'affare finché il Signore non m'abbia fatta la grazia di riabbracciar Filippo”.
I rapporti guastati
Filippo Manzoni rimase dunque prigioniero a Crema probabilmente fino alla prima settimana di aprile, quindi fu trasferito a Rovereto dove ricevette un’altra lettera di Manzoni che era in realtà indirizzata a Crema, e infine fu tenuto prigioniero in Tirolo fino alla metà di giugno. Una volta scarcerato, venne trasferito a Vienna in libertà vigilata. Qui il giovane si indebitò per lire 3.600, ma gli venne in aiuto per l’ennesima volta il padre, conscio della “fatale disposizione” del figlio a spendere. I rapporti tra Manzoni e il figlio da questo momento cominciarono a guastarsi irrimediabilmente. Alessandro venne infatti a sapere che Filippo, ormai considerato alla stregua di un figlio degenere, era intenzionato a ipotecare il reddito ricavato dalle quote ereditate dalla nonna e dalla madre. Fu così che quando Filippo ritornò finalmente libero a Milano e si sposò, il 10 giugno 1850, Manzoni non volle neppure conoscerne la moglie. Oppresso ancora una volta dai debiti, Filippo implorò l’aiuto della matrigna Teresa Borri Stampa (nell'immagine sopra), la seconda moglie di Manzoni, che non poté fare altro che mostrare le sue lettere al marito e Manzoni decise così di inviargli ogni mese una somma di denaro per il suo sostentamento. Ma Filippo continuò con le vecchie abitudini e visse di espedienti finché morì nel 1868, cinque anni prima di suo padre. Manzoni non volle mai conoscere né la moglie né i nipotini che Filippo gli aveva dato: Giulio, Massimiliano, Cristina e Paola. È questo il triste epilogo di una storia iniziata con un’avventurosa detenzione politica a Crema che per un attimo era sembrata l’occasione per risanare i cattivi rapporti tra un padre affettuoso ma austero e un figlio scapestrato, ma che, alla lunga, non sortì gli effetti sperati. Filippo, dagli esordi cremaschi fino alle morte, restò sempre la pecora nera della famiglia Manzoni.