“Crema, Cremata giacet”. Così alla fine dell’assedio scrive il Barbarossa, prima di andare a festeggiare a Lodi. Da quel momento in poi gli atti imperiali venivano firmati all’uso romano ‘post destructionem Cremae’.
L’assalto finale
Preparato il terreno per muovere le macchine da guerra e avvicinarle alle mura, siamo ormai a dicembre. La precisione dei lanciatori cremaschi, frombolieri, arcieri e balestrieri, costringe il Barbarossa a rallentare e a ricorrere ad un macabro espediente: fa appendere gli ostaggi cremaschi alla macchina infernale per limitare i lanci difensivi. Secondo alcune fonti furono 20, per altri il doppio. L’imperatore ripara la macchina, la riveste con cuoio, lana e vimini e la riposiziona al centro del fossato.
Il gelo e la nebbia
Il 6 gennaio del 1160, con un ariete, vengono distrutte 12 metri di mura. Il Barbarossa per avere Crema ricorse agli studi di Vitruvio e di Vegezio oltre agli ingegneri orientali. I cremaschi erano protetti da corazze di latta, poco resistenti ai colpi inferti dalle balestre. Se all’inizio dell’assedio i cremaschi cantavano a squarciagola per le strade del borgo irritando gli assedianti, ora era il pianto a riempire il gelo e la nebbia dei vicoli della città.
Il traditore
Federico riesce a sfuggire da una cascata di fuoco, formata da zolfo, fosforo, lardo, olio e pece. Durante una notte saturnina esce dal castrum il traditore: Marchese o Marchisio, ingegnere militare che allestì le difese militari cremasche. Si vende al Barbarossa per un magnifico destriero e una manciata di monete. Indica al nemico i punti deboli della cinta muraria e fa costruire una macchina in legno lunga 24 metri e lunga quasi 4 metri.
Stipulata la resa
Il 21 gennaio parte l’attacco finale. Necessario un antefatto: due ambasciatori cremaschi, Giovanni De Medici e Alboino De Bonati s’incontrano nel campo imperiale col cugino del Barbarossa, il potentissimo Enrico il Leone, Duca di Sassonia e Pellegrino, patriarca di Aquileia. Viene stipulata la resa. I due cremaschi si recano quindi dal Barbarossa, s’inginocchiano chiedendo pace e clemenza.
Ripari di fortuna e tuguri
L’imperatore acconsente, il 27 gennaio 1160, le 20 mila persone superstiti escono da porta Pianengo e si disperderanno infelici e raminghi nell’area circostante, dove con ripari di fortuna, tuguri e capanne, vissero per 25 anni. Il Barbarossa, finito l’esodo, diede l’ordine di bruciare e radere al suolo la città. Il 3 febbraio 1160, giorno delle ceneri, l’imperatore di recò col suo esercito a Lodi e quindi festeggiò.