L’Onu ha definito la giustizia riparativa come “ogni procedimento in cui la vittima e il reo, nonché altri eventuali soggetti o comunità lesi da un reato, partecipano attivamente insieme alla risoluzione delle questioni emerse dall’illecito, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. Un approccio, dove, il carnefice e la parte lesa vengono collocati su un piano di parità. Questo approccio alla tematica è emerso con il dialogo “Incontri improbabili”, realizzato dalla Consulta dei giovani di Crema, all’interno del progetto 57 giorni, strade di legalità. Nella serata di lunedì 27 maggio, in sala Pietro Da Cemmo hanno preso parola Agnese Moro, figlia dello statista assassinato dalle Brigate rosse, Grazia Grena, ex appartenente ai gruppi armati, Elena Pezzotti, una dei "primi terzi" a partecipare al Gruppo dell’incontro e padre Guido Bertagna, mediatore all’interno del Gruppo.
Il cambiamento è possibile
La prima a prendere parola è stata Elena Pezzotti. Con il pubblico ha condiviso il percorso fatto all’interno del Gruppo dell’incontro, per niente facile ma molto appagante. Lei stessa lo ha definito come un dono che “ha trasformato il mio sguardo, mi ha fatto capire che il cambiamento è possibile e gli incontri improbabili avvengono”. Elena, come molti altri all’interno del Gruppo, ha avuto un ruolo nei “primi terzi”: giovani tra 20 e 30 anni, studenti universitari o ragazzi vicini alle iniziative culturali dei gesuiti milanesi, poi anche persone di varia età ed estrazione culturale, chiamati a testimoniare, con la loro stessa presenza, un dialogo senza alcuna cornice istituzionale, forte soltanto del libero consenso dei partecipanti. La sua personale esperienza è cominciata nel 2010, con non poche titubanze e silenzi, durati fino al 2015, anno di uscita del volume “Il libro dell’incontro”. “La componente terza – ha proseguito – è stata importante perché permetteva alle due parti di incontrarsi, aiutandole a creare spazio: elemento fondamentale che permetteva alle parole di risuonare e ritornare all’altro, evitando l’effetto specchio”.
Ridare parola con il dolore
Guido Bertagna, ha spiegato con estrema schiettezza il fulcro del Gruppo: l’ascolto e la parola. Lo stesso ascolto del pubblico presente, in totale silenzio, ha messo in continuità il cammino percorso dagli ospiti. “Noi umani – ha commentato il padre gesuita - abbiamo l’abitudine ad ascoltare e preparare la risposta mentre l’altro sta ancora parlando, questa è una tendenza che penalizza l’accoglienza dell’altra persona”. L’esperienza del Gruppo invece, è stata fondata su tutto l’opposto: sulla possibilità di ascoltare, senza dover immediatamente sapere cosa rispondere o se rispondere. Un gruppo nato dall’ascolto, non dal ribattere. “In questi anni abbiamo affrontato tante storie e, indipendentemente da chi proveniva il racconto, noi abbiamo maturato il desiderio che queste storie tornassero ad essere comunicabili, per diventare patrimonio condiviso. Il Gruppo è partito con l’idea di provare a restituire la parola con il dolore”.
Percorso legato dalla sofferenza
Con semplicità e lucidità, Agnese Moro ha raccontato dello sforzo collettivo fatto all’interno del Gruppo, per dare a tutti la possibilità di consegnare parole al dolore. “Con il dialogo abbiamo dato respiro alle nostre vite”. Prima di entrare all’interno di questo confronto attivo, la figlia di Aldo Moro, ha toccato un tema molto delicato: la solitudine da lei provata. “Le persone come me, a cui è stata tolta una persona amata, vivono una solitudine abissale, non c’è nessuno a venirti in contro”, per questo motivo, la proposta di giustizia riparativa fatta da padre Bertagna le sembrò strana, insensata, ma ora considera il Gruppo come “un regalo inestimabile”. Un percorso legato dal dolore, in entrambi i casi. “I rei sono venuti a farsi infliggere una punizione peggiore di quella ricevuta in prigione. Avevamo un dolore diverso: quando sei stato fautore di un atto al quale non puoi rimediare, e lo hai fatto con il buon desiderio di cambiare il mondo, per poi scoprire che le tue intenzioni di bene si sono trasformate in un grande male, non puoi più farci niente. Hai ucciso delle brave persone amate da qualcuno, a questo non c’è rimedio. Uno sbaglio, fatto con le migliori intenzioni, al quale non puoi più rimediare. È un dolore incredibile, peggiore del mio”.
Tutti sullo stesso piano
Agnese Moro ha poi riflettuto su una tematica per niente scontata: il contatto con il dolore altrui, capace di far cambiare idea sull’altra persona. “Entrando in dialogo con loro, ascoltando le loro sofferenze, mi sono resa conto che non li vedevo più come criminali, ma come persone uguali a me. È stato difficile parlare con loro di chi era per me mio padre”. Una confessione che alla maggior parte delle persone potrà sembrare un atto di vendetta e tortura, ma per Agnese ha simboleggiato la vicinanza. Tutti sullo stesso piano. “Il passato non si può cambiare, ma insieme possiamo portare il dolore e la memoria. A me mio papà manca sempre, ma non sono la sola a portare il mio dolore, ci sono loro e io porto anche il loro. Abbiamo ascoltato l’inferno di ognuno e alla fine i fantasmi del passato se ne vanno, sostituiti da persone che, pur avendo sbagliato, ti sono venute in contro e hanno condiviso con te tanto”. La Moro ha chiuso il suo monologo accostando il Gruppo alla vita: “sono tornata a respirare dopo non averlo fatto per tanto tempo. Ha fatto male, ma rimane comunque ossigeno”, dopo questa frase è crollato in un pianto liberatorio, accompagnata da un rispettoso applauso.
Dal sangue è nata un’amicizia
È stato toccante vedere Grazia Grena in tutta la sua fragilità, aver paura a prendere parola dopo la testimonianza di Agnese, per timore di comporre “frasi povere”. Sarà sempre grata alla figlia di Aldo Moro per averla fatta sentire uguale a lei. “Io all’incontro ero la colpevole all’inizio, un dolore diverso da quello di Agnese. Il paradosso è che alla fine ci hanno ascoltato davvero solo le vittime e hanno ascoltato cose terribili. Agnese ha sentito dire che abbiamo fatto la lotta armata per amore. Durante gli incontri, il dolore di Agnese era un macigno e lo sentivo tutto nel suo urlo, mi chiese perché avessi fatto quelle scelte, lei quel “perché?” lo ha urlato, lì io mi ammutolì. Ora sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono: un umanità preziosa che spesso non ci ricordiamo di avere”. Un percorso veramente improbabile, capace di far nascere amicizie. La Grena ha terminato il discorso sottolineando come Agnese sia una delle sue più grandi amiche, “ha un segno di amore nei miei confronti. Questa amicizia è un dono impagabile”. Mano nella mano hanno dimostrato l’importanza di un percorso gentile e empatico, dove l’espiazione della pena non è sufficiente né per il carnefice, né per la vittima.