“Piacevolmente stupiti perché ogni volta Crema e il Cremasco risponde ai nostri richiami, mostrando chiari segnali che il territorio, pur non essendo immune da forme di illegalità si sente coinvolto e risponde a queste proposte”. Così Jennifer Riboli, referente di Crema del presidio di Libera in memoria di Danilo Dolci e Giuseppe Fava, commenta l’evento promosso ieri al San Domenico, con replica stamattina per le scuole cittadine. Ed in effetti, il San Domenico presentava un buon colpo d’occhio, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che Libera celebra il 21 marzo dal 1996. Crema dimostra di apprezzare la scelta degli organizzatori per l’intenso monologo di Dario Leone, il quale con il suo Bum ha i piedi bruciati, liberamente tratto da Per questo mi chiamo Giovanni, di Luigi Garlando non annoia, né stanca la platea, anzi, coglie appieno il messaggio che don Luigi Ciotti proprio ieri ha lanciato da Messina, quello di “traghettare la speranza”: da Lampedusa alla Valle d’Aosta, dalla Locride al Trentino, cresce la richiesta di verità, premessa per avere percorsi di giustizia.
La storia di Bum
Il piccolo Giovanni non sa perché il suo peluche preferito, Bum ha i piedi bruciati, così un giorno suo padre decide di spiegargli tutto. E per risalire al perché di quella condizione, diventa necessario risalire a Giovanni Falcone, uno che ha combattuto la mafia, aprendo le coscienze di molte persone, compreso il papà del piccolo Giovanni, che decide di non pagare più il pizzo e per questo si vedrà bruciare il negozio: tutto in fumo, meno Bum, il pupazzo a cui vengono bruciacchiati soltanto i piedi.
“Giovanni difende chi subisce ingiustizia!”
Il protagonista è in grado di raccontare con un buon ritmo e servendosi di una scenografia essenziale, caratterizzata da cambi di luce che si riflettono su alcuni pannelli, sui quali di tanto in tanto scorrono le immagini di una Sicilia che tra sole, mare, bellezze naturali, offre alcuni fotogrammi della storia oscura del nostro paese. E così, scorre via la serata, partendo da via Castrofilippo, la fanciullezza di Giovanni Falcone, nel quartiere Kalsa, lo stesso di Paolo Borsellino e di Tommaso Buscetta. Parte da qui la storia di quello che sarebbe diventato un magistrato, le cui capacità investigative il mondo invidia. Da lì, al convitto nazionale, la spiaggia di Mondello, l’accademia navale di Livorno e poi il cambiamento, la scelta della facoltà di giurisprudenza, perché “Giovanni difende chi subisce ingiustizia, come Zorro!”. A 26 anni completati gli studi universitari e la formazione seguente, Giovanni Falcone riceve il primo incarico: pretore a Lentini, poi il trasferimento a Trapani e le prime inchieste scomode sulla mafia. Ma il giovane Falcone, capisce presto che qualcosa non va. È curioso, e crede che qualcosa non funzioni nei meccanismi che le istituzioni repubblicane fino a quel momento, avevano pensato per fronteggiare il diffondersi di fenomeni degenerativi, non solo nelle piccole cose di paese, ma anche nelle grandi questioni, in Sicilia, in Italia, all’estero.
La mafia come fatto umano
Si chiede perché l’azione posta in essere dallo Stato non funziona, fallisce, è poco incisiva: ci sarà pur un tallone d’Achille, in questo universo che caratterizza la mafia, continua a chiedersi. E qui, un frammento di un’intervista televisiva dell’epoca, con quelle poche parole ricche di significati: “la mafia è un fatto umano, non esistono uomini invincibili”. Trovato l’errore, per Falcone l’approccio verso questa organizzazione malavitosa deve cambiare, perché tutti i delitti sono ascrivibili ad un’unica cosa: la mafia, che ha una sola testa e una miriade di ramificazioni, famiglie, cosche, interessi, connivenze con politica, istituzioni, economia.
Il percorso del denaro
Proseguendo nel suo monologo Leone parla di omertà, dell’intuizione di Falcone di tenere d’occhio il percorso del denaro, perché seguendo gli investimenti e i trasferimenti bancari dei mafiosi, diventa possibile scardinarne le fonti economiche e non solo. È il cosiddetto metodo Falcone, quello delle indagini bancarie, gli sviluppi all’estero e soprattutto negli Stati Uniti. La ricostruzione storica è perfetta, si arriva agli anni di Palermo, agli assassini di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, a quella che diventerà la quotidianità del magistrato: la scorta, la vita in gabbia. La creazione del pool antimafia e i veleni dentro e fuori il Palazzaccio, il pentitismo, il maxiprocesso, gli attentati, l’incarico a Roma e poi il racconto della strage di Capaci del 23 maggio 1992.
Sicilia colorata
Il finale, forse un po’ scontato, tocca comunque lo spettatore con l’invito appassionato del regista verso i colori che la Sicilia sa esprimere soprattutto e non a caso, a maggio: applausi e il peluche con indosso la t-shirt di Libera chiudono simbolicamente il sipario.