20-09-2016 ore 10:51 | Cultura - Crema in litteris
di Nicolò Premi

Studio, insegnamento e vita religiosa di Enrico Barelli, il Virgilio cremasco

Anche Crema ebbe il suo Virgilio. L’8 giugno 1724 nacque a Ricengo, in località Castello, una personalità che, per la sua abilità nel comporre versi latini, i suoi contemporanei avrebbero paragonato addirittura al grande poeta dell’Eneide. L’uomo che sarebbe stato destinato a divenire il più grande erudito che la storia di Crema avesse mai conosciuto nacque con il nome di Carlo Alessandro Barelli da una famiglia che l’abate Tintori, letterato cremasco, annovera tra le “cittadine che a Crema vivevano con maggior decoro”. Per comprendere il rilievo socio-economico dei Barelli basti il fatto che all’epoca la famiglia era proprietaria dell’oratorio di San Carlo Borromeo, eretto nel 1619 a Ricengo in località Castello (nell'immagine). Carlo Alessandro, fin da bambino versato nelle lettere, si formò presso il collegio dei Barnabiti di San Marino di Crema - dalle cui ceneri sarebbe nato il Liceo classico cremasco - e fu proprio tra i banchi di scuola, sotto l’attenta guida dei padri Barnabiti, che maturò in lui la vocazione allo studio, all’insegnamento e, soprattutto, alla vita religiosa: a vent’anni decise di vestire lo stesso abito dei suoi precettori e, a Monza, si fece Barnabita. Assunse il nome di Enrico e in breve tempo, trasferitosi a Milano, divenne professore di lettere greche e latine presso il collegio di San Barnaba e l’istituto Sant’Alessandro.

 

Il principe degli eruditi

La cattedra di latino e greco fu per Enrico Barelli l’abbrivio di una floridissima produzione in versi latini che lo portò a essere definito da Giovanni Solera, curatore postumo di una raccolta dei suoi scritti, il principe di tutti gli eruditi cremaschi. Barelli scrisse numerose opere latine e si cimentò soprattutto nella poesia epica. In particolare fu autore di un lungo e dottissimo poema in sette libri dal titolo De christiana religione (pubblicato a Bergamo nel 1790), un monumentale compendio di teologia e storia ecclesiastica in cui dimostrò non solo la sua prodigiosa maestria nel comporre versi latini, ma anche la capacità, propria dei migliori poeti, di rivestire con le bellezze della lingua anche i concetti più aridi e le speculazioni più algide e raziocinanti della scienza teologica. In un necrologio pubblicato sulla Gazzetta di Milano nel 1817, qualche giorno dopo la sua morte, si afferma che le sue opere “mostrano che il suo ingegno potea vincere facilmente ogni ostacolo”; e per ingegno s’intenda qui sia l’ingenium poetico (genialità dell’ispirazione e talento innato) sia l’ars (tecnica artistica) per elaborarlo in perfetto stile.

 

Esametro virgiliano

Il modello di Barelli è senza dubbio l’esametro virgiliano e di fronte a un poema di tale mole (il De christiana religione conta circa 9000 versi a fronte dei 9896 dell’Eneide) non fu difficile per i suoi contemporanei eguagliarlo proprio a Virgilio: secondo quanto racconta la Gazzetta di Milano ci fu addirittura un vescovo (forse proprio il vescovo di Crema dell’epoca) che bandì dal suo seminario lo studio dell’Eneide per sostituirlo con il poema del Barelli, evidentemente ritenuto di pari dignità letteraria e di maggiori virtù morali. Il nostro latinista non si cimentò solamente con i suoni ardui della tromba epica; nel corso della sua ricca produzione si incontrano anche numerosi componimenti che pizzicano le corde della lira: compose un inno in onore dell’antichissimo e miracolosissimo Crocifisso che si conserva e venera nella Cattedrale di Crema (una delle pochissime sue opere tradotte in italiano), un carme panegirico sul coraggioso condottiero del XIV secolo Alberico VII da Barbiano, un carme per l’elezione al papato di Clemente XIII, uno che celebra le vittorie dei Boemi, un’elegia sulla questione della lingua italiana e molti altri ancora. Restano inoltre tuttora inediti un suo poema De gratia divina e un altro De rebus gallicis, forse conservati insieme ad altri manoscritti del Barelli nella Biblioteca Carrobiolo a Monza. La qualità letteraria, la mole, la varietà d’ispirazione e la profonda erudizione della sua opera hanno dell’incredibile.

 

Studiorum humanitatis ac literarum rationem

Dopo la soppressione dell’ordine dei Barnabiti nel 1810 il latinista, anche per sfuggire all’asfissia della Milano napoleonica, ritornò a Crema dove visse, come scrive il Solera, “in altissima tranquillitate” circondato dalla sua famiglia fino all’età veneranda di 93 anni. Morendo lasciò incompiuto un carme sulla guerra austro-prussiana del 1760 destinato a prolungare la sua opera sulle vittorie dei Boemi ed è verosimile pensare che un letterato della sua tempra ci abbia lavorato anche negli ultimi anni di vita. Giovanni Solera, nella prefazione alla sua raccolta, scrisse che intendeva proporre l’esempio della somma opera del Barelli come uno stimolo per i giovani suoi concittadini ad rite conficiendam studiorum humanitatis ac literarum rationem (a compiere con diligenza gli studi di umanità e letteratura), ma le parole più perentorie e definitive sul suo conto furono quelle dello storico Francesco Sforza Benvenuti che nel 1859 concludeva così il suo profilo biografico del Barelli: “Di scrittori, sia in prosa sia in versi, Crema produsse parecchi in varie età, ma d’uomini che, per dottrina, e insieme per vaghezza di forme nell’esporre i proprj concetti, siasi dimostrato veramente letterato, noi non conosciamo alcuno da reggere al confronto con Enrico Barelli”. A giusto titolo si può dunque affermare che il Virgilio cremasco, fu il maggiore tra i più dotti uomini a cui la città di Crema diede i natali oltreché uno dei massimi latinisti del suo tempo.

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