Insopportabile e fastidioso l’incipit del film La zona di interesse. Viene voglia di alzarsi e andare via, costretti a rimanere fermi per dei minuti interminabili, dentro una oscurità che avvolge, quasi soffoca: uno schermo nero che non permette di immaginare ma che fa nascere prepotente il desiderio che possa prima o poi scomparire, sgretolarsi-
Tenebra e colpa
E sono proprio queste prime ‘non-scene’ a gettare un seme nell'animo dello spettatore, il regista Jonathan Glazer vuole accompagnarci nella nostra opera di giardinieri, aiutarci (costringerci) a prenderci cura di una pianta che nel corso del film germoglierà nella coscienza di chi assiste; una pianta alimentata non solo dai suoni (essi stessi fastidiosi) che faranno da colonna sonora per tutta la durata del film, ma anche dalla consapevolezza che il male, la tenebra, l’abisso ci appartengono e non è sempre e solo affare di qualcun altro o peggio colpa di qualcun altro.
Percezione del controllo
E di piante ne vedremo, come di fiori splendidi e colorati. Vedremo la vita di una famiglia ‘normale’ che scandisce la quotidianità con una meticolosa attenzione a tutti i dettagli, non ci sono sbavature, non ci sono irregolarità: dalle pantofole posizionate perpendicolari ai piedi del letto alle luci spente ogni notte dal padrone di casa con un ordine maniacale, alla ossessione che tutto sia pulito, ordinato, impeccabile. È evidente come sia necessario per i protagonisti avere la percezione che tutto sia sotto controllo, non ci può (non ci deve) essere spazio per nessuna cosa che possa frantumare la corazza che veste la loro coscienza; le emozioni sono come schegge puoi immaginare da dove partono ma non sai dove arrivano e cosa possono determinare: potrebbero anche farti rinsavire, farti riconoscere addirittura disumano. Le emozioni non hanno regole, serve contenerle.
Il muro rassicurante
Lo sguardo deve allora rimanere confinato nel perimetro familiare costruito ad hoc, pensato a garantire quella giusta dose di serenità che non ti porta a desiderare altro, che non ti porta a cercare altro e soprattutto a non volere spingere lo sguardo oltre il muro di recinzione. È un muro importante questo che vediamo, che ha assunto, nella storia, il ruolo di confine tra la ragione e la follia, tra il bene e il male, tra l’umano e il disumano, spingere lo sguardo oltre quel muro rischierebbe lo sviluppo di una follia che il protagonista (comandante del campo di concentramento) non può permettersi. Quel muro circonda il campo di concentramento di Auschwitz, separa la splendida dimora costruita con pazienza e determinazione dal comandante del campo e soprattutto da sua moglie Hedwing (interpretata da una solenne Sandra Huller). Quel muro deve contenere l’orrore.
La dolce illusione
Ma state tranquilli non vedrete nel corso del film ebrei nudi o rasati, o schizzi di sangue, o torture, lo spettatore sa già tutto non è necessario mostrare quello che è stato; ma avviene qualcosa di peggiore: una tortura sonora, costante, ripetuta, incessante. Fatta di voci, passi, grida, di fuoco che divampa. Colonna sonora a cui fanno da controcanto le risate dei bambini della casa. E questo pazzesco scontro sonoro che rende questo film potente, originale, necessario. C’è spazio anche per il bene, ma in trasparenza, un’azione quasi onirica; lo spettatore fatica a comprendere quanto siano reali le azioni di una giovane bambina che cerca di portare sollievo, ma sono un anestetico, un balsamo, una dolce illusione. Non c’è film migliore di quello che ti lascia la voglia di restare in sala per continuare a guardare.