18-07-2014 ore 19:11 | Cultura - Storia
di Luigi Dossena

Historia et imago Cremae. Crema e i 117 mulini a fine Ottocento, dalle mura venete ai paesi limitrofi la tradizione agricola del territorio

Al calar dell’800, i mulini mulinanti intorno al corpaccione esangue del Girondo Lacus erano ben 117, ruotanti e gocciolanti in giro per le campagne cremasche. Messer Pietro da Terno li spalma tutt’intorno alle mura ottoniane, prefedericiane e federiciane venete. Precisamente descrive un primo gruppo di mulini nell’area del Campo di Marte, un secondo intorno a Porta Ripalta, cioè al Velodromo, ed un terzo nucleo in bella vista nell’area afferente ai giardini pubblici.

 

Fra una roggia e l’alttra

Ancora oggi fra la bellezza selvaggia delle nostre campagne di tanto in tanto fanno capolino, dopo una svolta dell’asfalto o come spartiacque fra una roggia e l’altra; quasi una ruota della vita, ferma, immota, ferragna e maestosa. Parrebbero folgorati sulla via del cremasco, senza voce, prigionieri in un’altra dimensione, ultimi epigoni dell’ars molitoria cremensis. Le ruote in ferro sono ancora lì, dopo che a loro volta avevano sostituito le rotanti pale lignee sfibrate da secoli di incessante moto, mentre sora acqua e le cascatelle che sono oramai effimere.

 

I mulini a palamenti

Quando la paratoia si apriva, al volere del mugnaio, circondato dalla polvere d’oro colpita dai raggi del sole (la volatile farina), con un grande respiro le pale si mettevano in movimento e come un segno di concordia, toccando le ruote dentate, azionavano i vecchi palamenti. I mulini a palamenti erano fatti da due macine messe una sopra l’altra: una delle pietre era ancorata (quella sotto), l’altra adagiata ben sopra con un pertugio nel mezzo; fra queste enormi pietre rotonde ben appunto vi si introduceva il grano. Intorno alle due pietre inoltre veniva avvolta una faséra: una sorta di grande camicione che impediva alla farina di svolazzare per ogni dove e che la incanalava verso un unico sbocco, ove l’aspettava un bancone in legno; mano mano che scendeva veniva messa poi nei sacchi di iuta.

 

Il mulino Venturino sulla rogga Babbiona ad Offanengo

Il marchingegno

Il mulino cremasco era una sorta di marchingegno, facto da un sistema di alberi e contralberi e ruote dentate; una creatura di legno, ferro e pietra che l’acqua, grazie al suo scorrere, movimentava. L’acqua era il sangue, le rogge le arterie, i fossi e i rigagnoli le vene che davano la vita a quell’essere nato per mano dell’uomo. Tutto però aveva bisogno di continua manutenzione: spessori e scanalature venivano resettate per mezzo di un paranco posto su ogni pezzo e che in caso di bisogno permetteva di sollevare le pesantissime macine e di cambiarle di posto.

 

La scupelà

Il rito: quando mastro mugnaio riteneva che tutto fusse pronto, iniziava riempiendo la tramoggia dando la prima acqua, semplicemente girando le manovelle e manovrando dei tiranti e così, come per magia, liberava le paratoie esterne. Quando sora tramoggia si svuotava , una colombina faceva tintinnare un campanellino, e cussì il mugnaio poteva riempire i sacchi di farina dando a scupelà. Scupelà era l’arte d’arrangiarsi in salsa cremasca, era il modo di retribuirsi sapendo che vi era una percentuale dovuta per il lavoro contoterzista. Nel cremasco, in ogni paese, ognuno si recava col proprio sacco di frumento o di granoturco al mulino e colà si fermava giusto il tempo per la macina, cussì si usciva con la stessa misura, trasformata in farina bianca o gialla.

 

Il declino

Dentro l’acqua le ruotone giravano e roteavano, accompagnate da qualche cigolio stridente, ed il filo di farina che scendeva sul tavolaccio trovava quasi sempre un ragazzo con in mano un cupèl o lo ster (unità di misura, ndr): con questi attrezzi la farina veniva messa nei sacchi per poi essere impastata nelle grandi panére. Infine veniva infornata nei grandi forni a legna, et voilà! ecco sfornato il pane croccante. In ogni cascina e in tutti paesi vi erano dei forni a disposizione di tutta la comunità.

 

Lo smantellamento

Al termine degli anni ’40 però i forni comunali iniziarono ad avviarsi lungo il mesto viale del tramonto, perché la gente scoprì che era più comodo andare direttamente dai fornai ma questa è un’altra storia. Intanto però questo fatto mise i mugnai e i mulini in ambasce, al punto che in un breve lasso di tempo, uno dopo l’altro nell’arco di un ventennio le pile, i mulini furono smantellati. Qualcuno rimase in vita e in funzione a Montodine, Izano, Madignano e Offanengo, ma anche altri si possono trovare silenti qua e là sul territorio e paiono dire: “vi stiamo aspettando…”

 

Gli ultimi mulini

Ad esempio fra Offanengo e la località chiamata Portici troviamo il Molino Venturino, in quella località vi erano ben due mulini: di uno si è persa la ruota, mentre quello ricostruito agli inizi del 900 aspetta solo un colpo di manovella alle paratoie per ripartire. Lungo la strada che si infila da Madignano e che porta  al santuario della Pallavicina, al margine della grande roggia emerge dal fogliame e dall’acqua il mulino Tessadori, la sua ruota è ancora in movimento e girando crea spruzzi canterini, fendendo il gorgoglio dell’acqua che corre burbanzosa. Una targhetta segnala che nel 1911 il falegname Marazzi gli ha fatto un ritocchino, ancora oggi esce un rivolo di farina gialla dalle rotanti macine. Fonti: Dottor Aldo Parati, “I Caalér da la Lüna  - cronache della campagna cremasca” 1990. Fotografie, I mulini nel cremasco, Gruppo antropologico cremasco 1990.

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