15-12-2024 ore 16:28 | Cultura - Proiezioni
di Michele Gennuso

La stanza accanto, poetico e struggente, indaga il diritto di poter scegliere il proprio fine vita

Nella consapevolezza di andare ad assistere ad una storia che narra del gesto estremo di una donna che decide di morire, o meglio di togliersi la vita, dopo aver combattuto invano la sua battaglia contro una malattia a prognosi infausta, si entra in sala con la paura di assistere alla rappresentazione calda, bruciante, urticante, disperata, ustionante dell’eutanasia o viceversa si ha il timore di guardare un film gelido, asettico, distante di chi affronta le sue ultime ore in un altrove che non sia la propria quotidianità. Invece Almodovar ci sorprende, ci porta ad abitare il quotidiano, la temperatura dell’ambiente familiare e rende protagonista una sconvolgente e a tratti rasserenante razionalità: quella capacità che possediamo ma che spesso indeboliamo, sbriciolandola travolti dagli eventi.

 

Giustificare la malattia
Certo di fronte ad una diagnosi di tumore che malgrado le terapie continua ad accrescersi diffondendosi ed indebolendo il corpo e l’anima appare inverosimile riuscire a tirare fuori la razionalità, perché non c’è niente che possa giustificare la malattia o il dolore (tranne per coloro che sono sostenuti dalla fede), bisogna probabilmente prenderne atto per sopravvivere, per vivere meglio, per soffrire non meno ma sicuramente meglio. Ognuno di noi ogni giorno fantastica di sé; si crea il proprio film personale, la propria storia, passiamo le ore a immaginarci in un certo modo e in un certo dove, ci impegniamo per realizzare noi stessi ed è intollerabile, inaccettabile che un evento possa in qualche modo costringerci ad un finale diverso; e nel film a mio avviso non emerge un giudizio morale ma solo il desiderio (legittimo) di morire bene, di morire anche belli fisicamente ed è pura poesia la scena in cui Martha (una solidissima Tilda Swinton) si trucca per rendersi appetibile, quasi ancora più desiderabile alla morte stessa.

 

Colori intensi, caldi
È un film dove emerge la normalità, il quotidiano dove tutti ogni giorno siamo immersi; abbiamo tutti la necessità ogni giorno di far colazione di pranzare di andare a lavorare di scrivere di leggere, di passeggiare, di godere di un paesaggio, di stressarci per poi godere nel riposare, di amare e litigare; Almodovar a mio avviso ci vuole proprio rappresentare l’uomo/la donna normale, non ci sono eroine, non ci sono titani, ci sono uomini e donne (soprattutto donne) che aspirano alla serenità. È disarmante la capacità narrativa di Almodovar non si smentisce nemmeno questa volta riesce a penetrare nell’animo e ci consente di entrare nella vita dei protagonisti attraverso la sua macchina da presa che non esita a rimanere a lungo sul primo piano delle sue protagoniste. Il copione prevede che siano spesso gli occhi di Martha a parlare; sono gli sguardi che ci dicono che l’anima è triste perché vivere è una esperienza stupenda e totalizzante a cui vorremmo appartenere per sempre, ma questa stessa anima sa sorridere, sa cercare nel buio la luce ed Almodovar in questo è il maestro; non c’è un suo film in cui le tinte forti non emergano fino quasi a sfondare lo schermo, colori intensi, caldi, che abbracciano e che rasserenano perché se non si può non soffrire si può però soffrire meglio.

 

 

Fine vita
Almodovar sa bene che il tema dell’eutanasia è spinoso e polarizzante ma non si sottrae perché avverte necessaria la riflessione sull’argomento del morire o del morire bene che però associa al come e al quando scegliere di morire offrendo allo spettatore senza troppi giri di parole la soluzione quasi istantanea all’autodeterminazione. E innesta tutta questa complessa riflessione paradossalmente in un contesto che parla di vita: la scelta dei luoghi, dei colori, dei panorami, la colonna sonora, tutto concorre a dipingere l’affresco della vita. Ed è Hopper con le sue “persone al sole” che dà il “la” a questa sinfonia e terminerà Almodovar dipingendo la sua Martha in immagini che resteranno a mio avviso nella storia cinematografica. Affrontare il tema del fine vita è complesso, il morire è scandito da un percorso dove è previsto un inizio ma dove è confermata la fine: ci si ammala, si accusa il colpo e si cerca di reagire (più o meno) si cercano le cure, si “provano” le terapie, ci si deve autodeterminare nella ricerca di una alleanza terapeutica con i medici, si può scegliere di ricorrere alle cure palliative e si può scegliere legittimamente anche di non intraprendere nessun percorso di cura… bisognerà poi arrivare ad una diagnosi di terminalità e la fine della corsa, il traguardo (mai desiderato) è lì!

 

La bellezza della vita
È un percorso in solitaria ma che presuppone la presenza degli altri e dalla cura si passa al prendersi cura e anche di questo ci parla Almodovar tralasciando il ruolo dei sanitari e affidando la preziosa azione del curare all’amica “ritrovata” Ingrid (Julienne Moore) che non si sottrae a diventare compagna di strada. È necessario ritornare alle radici di questa amicizia, ripercorrere i momenti che hanno unito queste due splendide anime per far riemergere rami sotto cui cercare sollievo all’ombra di un sole abbagliante ed è l’amicizia che si fa presenza, ossigeno, balsamo senza invadenza alla giusta distanza come i porcospini che non si avvicinano troppo perché se no rischiano di farsi male ma non si allontanano nemmeno tanto perché se no rischiano di non riscaldarsi vicendevolmente. L’amicizia che consola, che culla, che rimprovera, che sostiene, che accompagna, l’amicizia che non scalfisce minimamente la libertà dell’altro, l’amicizia che rende l’altro prezioso agli occhi di tutti. Non c’è spazio per il dolore in questo film, non c’è spazio per la disperazione in questo film ed è questo l’elemento forte e significativo della narrazione che Almodovar ci vuole offrire: la morte come normale epilogo della vita, la malattia come luogo in cui si riscopre la bellezza della vita malgrado il dolore malgrado il limite malgrado l’assenza di futuro, c’è un momento in cui la malattia si liquefà, non se ne parla più, non esiste quasi più, si è dissolta.
 

Il benessere di ciascuno

C’è un accenno al cambiamento climatico, sembra andare fuori tema eppure la vita si esprime e realizza nel contesto sociale che ci appartiene e a cui apparteniamo e che è parte integrante del mondo; il benessere del mondo sviluppa il benessere di ciascuno e viceversa. È un film da vedere e da ruminare, si abbandona la sala con la mente in frantumi, non con il cuore a pezzi; si pensa e si ripensa al nostro essere al mondo. Ciò che un po' dispiace è che nel film manca tutta la (complessissima) riflessione su quello che c’è nel percorso di malattia, il regista ci si spinge “solo” verso il finale, non lo fa violentemente ma con la dolcezza determinata che lo contraddistingue da sempre; questo non possiamo che apprezzarlo perché non ci vuole convincere ci vuole solo mostrare un punto di vista diverso ma che non può non interrogarci.

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