14-06-2023 ore 20:04 | Cultura - Mostre
di Paolo Emilio Solzi

Le Donne Samurai di Benjamin Lacombe in una mostra multisensoriale da Tenoha a Milano

Dopo il successo di Botteghe di Tokyo e Fantasmi e Spiriti del Giappone, che hanno attirato più di 200.000 visitatori, è possibile ammirare fino al 26 novembre, presso lo spazio espositivo di Tenoha (Milano, via Vigevano n.18), una nuova mostra interattiva: Storie di Donne Samurai. Anche stavolta si tratta di un evento in collaborazione con la casa editrice L’ippocampo, specializzata in libri illustrati di alta qualità, che spesso per i lettori diventano oggetti di culto. La mostra infatti è ispirata all’omonimo libro appena pubblicato, con testi di Sébastien Perez e illustrazioni di Benjamin Lacombe: il seguito ideale di Storie di Fantasmi del Giappone e Spiriti & Creature del Giappone (entrambi editi da L’Ippocampo nel 2021).

 

Racconti perduti

Il libro Storie di Donne Samurai si apre con una citazione di Simone de Beauvoir sui diritti delle donne. Nell’introduzione Benjamin Lacombe rivela che il primo fumetto da lui illustrato riguardava già le onna-bugeisha, guerriere che nei secoli hanno lottato in una società maschilista e conservatrice. Lo Heike monogatari, “il racconto epico delle grandi battaglie della storia del Giappone redatto attorno al XIV secolo, non dedica a Tomoe Gozen più di quattro righe. Davvero poco per una condottiera che probabilmente aveva guidato eserciti di tremila uomini […]. Ma si trattava di una donna, e ciò ha comportato la sua quasi completa esclusione”. Dopo anni passati a cercare fonti originali sulle donne samurai, Lacombe si rendeva conto che tali testi erano pressoché inesistenti: della femminilità erano esaltate solo la bellezza, la fragilità, la dolcezza, non certo la forza o il talento militare. Lacombe chiedeva pertanto all’amico scrittore Sébastien Perez di rielaborare le poche fonti rintracciate. L’illustratore sottolinea: “Il divieto di fare uso della katana si annoverava fra le tante interdizioni che riguardavano le donne. Per difendere il proprio villaggio potevano tutt’al più ricorrere alla naginata, una lunga asta munita di lama a sciabola, ma non potevano assistere agli addestramenti o apprendere l’arte della guerra, né far parte di un esercito ufficiale”. Lacombe nota però quanto fossero diffuse le stampe di donne in armatura con in mano una katana, che “documentano una fantasia maschile ancora molto presente nella cultura popolare espressa da manga, film e videogiochi”.

 

Racconti ritrovati

Nella prefazione Matthias Hayek spiega che la letteratura confuciana è ricca di “donne modello”. Non erano guerriere, ma mogli “che sceglievano l’onore del suicidio dopo la morte del marito”. Gli autori “confuciani hanno avuto sempre difficoltà ad ammettere l’importanza del genere femminile […] nei miti antichi, al punto che ci fu perfino chi tentò di modificare il genere di Amaterasu, dea solare […] antenata della stirpe imperiale, sostenendo che, in quanto divinità yang, non poteva che essere maschile”. Nel libro troviamo non solo figure leggendarie, come l’imperatrice Jingū, ma anche combattenti della fine del XIX secolo, come Nakano Takeko e Yamamoto Yaeko, le quali presero parte alle lotte che all’epoca travolsero il Giappone. I sette racconti di intrepide eroine sono legati da fili conduttori, come lo stupore dei nemici nel vedersi “sopraffatti da una donna” (un grave disonore). Alcune delle protagoniste, figlie di samurai, sono state addestrate al combattimento fin dalla più tenera età. Altre scappano dai padri-padroni per diventare formidabili guerriere. Altre ancora, essendo loro interdetto l’accesso all’esercito, fondano un proprio battaglione al femminile, insegnando alle amiche a fabbricare armi e ad usarle con abilità impareggiabile. Una di loro afferma: “Io, fiore delicato, spaventavo un uomo che aveva […] quattro volte il mio peso. […] Volevo sentire il vento sulle guance quando il cavallo si lancia al galoppo, o fremere finché la freccia fischiando non raggiunge il bersaglio. Ma, essendo donna, tutto ciò mi era proibito”. In appendice troviamo enigmi e giochi di logica relativi alle donne samurai.

 

Benjamin Lacombe nel multiverso della follia

All’ingresso della mostra, il simpatico spiritello Oni (che nel libro appare dappertutto) invita i comuni mortali a non sfidare le invincibili samurai. Le tre stanze principali sono dedicate rispettivamente a Tomoe Gozen, alle sorelle vendicatrici Miyagino e Shinobu, e a Yamamoto Yaeko. Lungo il percorso incontriamo illustrazioni e schizzi di Benjamin Lacombe, ombrellini e ventagli finemente decorati, piante di bambù, armature da samurai e un giardino Zen dove torreggia Ogama, un rospo gigantesco del folklore nipponico. L’ambiente più suggestivo è una stanzetta illuminata da lanterne giapponesi. L’effetto degli specchi alle pareti, combinato con il fumo dei bastoncini d’incenso, è straniante e dà l’illusione di trovarsi in uno spazio infinito. Le ragazze dello staff, strette in eleganti kimono di seta, guidano con grazia i visitatori. Alle giapponesi brillano gli occhi quando spiegano, a parole o a gesti, qualche particolare della loro cultura, sfuggito anche agli osservatori più attenti. Le italiane non sono meno orgogliose di ospitare una mostra così originale, che valorizza e permette finalmente a un vasto pubblico di conoscere le donne samurai. Stavolta non c’è nessun ponte rosso da riattraversare per tornare nel mondo reale, ma l’immaginario onirico di Lacombe si abbandona sempre a malincuore.

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