13-07-2024 ore 20:30 | Cultura - Manifestazioni
di Paolo Emilio Solzi

Marco Polo, il mercante di Venezia raccontato da Giovanni Bassi e Fabio Canessa a CremArena

Per la rassegna I Manifesti a CremArena, Giovanni Bassi e Fabio Canessa (accompagnati da Enrico Tansini al pianoforte) hanno parlato del Milione. Non quello del Signor Bonaventura di novecentesca memoria, ma quello di Marco Polo, il mercante di Venezia morto 700 anni fa. Egli diceva di se stesso che “non fu mai uomo né cristiano né saracino né tartaro né pagano che mai cercasse tanto del mondo”. Venezia, con i suoi 100.000 abitanti, era allora la terza città più popolosa in Europa (dopo Napoli e Parigi). Là i mercanti prosperavano, purché dotati di spirito d’avventura, astuzia e fortuna. Più di due secoli dopo, William Shakespeare racconterà che un mercante, investendo un capitale nei traffici con l’Oriente, poteva diventare ricchissimo, ma doveva anche affrontare il rischio di perdere merci e navi, cadendo in assoluta povertà. I mercanti partivano con la loro mercanzia, e per lunghi mesi o anni restavano lontani dalla famiglia, causando il fenomeno delle “vedove bianche”. Per questo erano malvisti. Sotto gli occhi attoniti della folla, San Francesco si spogliò degli abiti sfarzosi del padre Pietro Bernardone, mercante di stoffe, per sposare la Povertà. Dante non nutriva alcuna simpatia per quel ceto di “gente nova” che con i suoi “subiti guadagni” aveva corrotto i valori della tradizione. Per il Sommo Poeta, coltivare i campi o dedicarsi alla politica erano mestieri più nobili, e soprattutto “più a misura di cristiano”.

 

Umanesimo e Rinascimento

Si deve attendere Boccaccio, figlio di un mercante, per ribaltare quel giudizio negativo, per tramutare il commercio, da cancro della famiglia, in fonte di ricchezza per città come Firenze e Venezia, e per apprezzare come virtù la furbizia dei mercanti. Ormai, alle soglie dell’Umanesimo, il denaro non è più demonizzato. L’usura tuttavia continua a non piacere e i banchieri vengono spesso assimilati agli usurai. Per questo Scrovegni, a Padova, tenta di “comprarsi” un posto in paradiso (o almeno in purgatorio) finanziando l’affresco dell’omonima cappella, che renderà immortali l’artista e il committente. La nuova civiltà rinascimentale finirà col prendere atto che “chi non ha oro o argento/non può aver nessun contento”, come proclama uno strambotto recitato nelle sfilate del carnevale.

 

Qui comincia l’avventura…

Marco Polo ha 17 anni quando suo padre e suo zio, mercanti e giramondo, ritornano da un viaggio lontano. La madre, nel frattempo, è morta, e quando i due si preparano a ripartire, il giovane li prega di portarlo con loro. Qui comincia l’avventura che vede Marco Polo curioso di conoscere le usanze orientali. Il percorso lo condurrà nel regno del Catai (la Cina) alla corte di Kublai Khan, l’ultimo dei Gran Khan. Quest’ultimo, visto che il giovane ha appreso in breve tempo le lingue dei suoi popoli e che è sempre avido di nuove scoperte, lo mette alla prova inviandolo come ambasciatore in terre lontane per sei mesi. Al suo ritorno, Marco Polo riferisce i costumi e le cose inusitate vedute laggiù. Il Gran Khan resta talmente colpito da quel racconto che conferisce al veneziano il titolo di Messere e per 17 anni ne fa il proprio ambasciatore. Per ringraziarlo, inoltre, gli dona due tavolette d’oro che valgono come lasciapassare in tutto il suo regno, dalla Cina all’Iran, attraverso il Tibet. È così che Marco Polo diventa “il primo inviato speciale” della storia. Tornato ricco a Venezia, partecipa a una battaglia contro l’avversaria repubblica marinara di Genova e viene fatto prigioniero. Rimane in prigione per un anno, dal 1298 al 1299. In carcere viene scritto il Milione, che prende il nome da Marco (E)milione Polo, il quale detta il proprio resoconto a Rustichello da Pisa, un compagno di prigionia.

 

Inviato speciale e antropologo

Si potrebbe dire che Marco Polo è stato “il primo antropologo”, poiché nel descrivere usi, riti, tradizioni di popoli allora sconosciuti si astiene dal pronunciare giudizi moralistici, esprimendo piuttosto sincero interesse e meraviglia. Ad esempio quando si sofferma sull’abitudine di alcune contrade cinesi, nelle quali un cappello appeso fuori dalla porta segnala la presenza di uno straniero accolto con grande generosità, nutrito, onorato e “coccolato” dal capofamiglia, che gli mette a disposizione moglie ed eventuali figlie, andandosene per tutto il tempo della sua permanenza per offrirgli maggiore libertà. Pare che le donne di quei luoghi fossero molto tranquille e soddisfatte dall’usanza: quando si cercò di vietarla manifestarono profonda malinconia, finché si desistette dall’intento moralizzatore. In altre contrade c’era la consuetudine di cremare i morti per evitare ai poveri vermi che, in caso contrario, sarebbero nati la sofferenza di morire di fame, una volta mangiato tutto il cadavere.

 

Detrattori e sostenitori

Tutto ciò è riportato nel testo di cui non ci è pervenuto il manoscritto autografo, ma che spesso viene citato come Livre des merveilles du monde. La lingua in cui è scritto è il francese d’oïl, la lingua “plus délitable”. E qui si pongono alcune questioni: anzitutto se l’opera sia attribuibile a Marco Polo o a Rustichello da Pisa. Il problema, di difficile soluzione, rimane aperto (come quando ci chiediamo se le teorie dei Dialoghi Platonici appartengano a Socrate o a Platone). Inoltre – come con i negazionisti dello sbarco sulla Luna – qualcuno si è spinto fino a dubitare che Marco Polo sia veramente stato in Cina (al massimo, sarebbe arrivato fino ad Istanbul): Frances Wood, sinologa e storica della British Library di Londra, nel 1995 pubblicò Did Marco Polo go to China? Al suo “no” si oppongono gli stessi cinesi, che hanno riempito il proprio paese di ponti, strade, statue, ristoranti intitolati al viaggiatore veneziano. Inoltre il fotografo Michael Yamashita ha pubblicato un libro per National Geographic che mostra per immagini le realtà descritte da Marco Polo, ancora oggi immutate. Non è l’intera Cina, ma lo stesso Marco Polo sosteneva di non avere scritto nemmeno la metà delle cose che aveva visto.

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