12-07-2014 ore 11:00 | Cultura - Storia
di Luigi Dossena

Historia et imago Cremae. Il cremasco un territorio diVino: storia, tradizione e coltura della repubblica del Pisarèlo

Ecce Pisarèlo… Il vino dei poveri! L’estremo slavaggio al corpo oramai privo di tutto- o quasi- delle vinacce, un miraculo invocato alla sindone di un raspo d’uva, l’ultimo getto di sora acqua sugli scheletri dei grappoli d’uva, et voilà, la trasformatio alchemica di acqua in quasi vino: ecce Pisarèlo.

 

La prima pigiatura

Un ricordo personale: il mio primo Pisarèlo. a.D. 1958, me lo ricordo bene quel fatto! Nel campo di mio nonno Rosolo, appena fuori Sergnano, si era vendemmiata l’uva americana (l’öa melűna). Dopo averla messa nella naàsa, entrai a piedi nudi coi miei fratelli e i miei cugini, ridendo a crepapelle schiacciavamo l’uva: era la prima pigiatura. Passato un po’ di tempo mia nonna Modesta chiamò a raccolta i nipotini e con grandi secchiate di acqua sui tralci di vite oramai svuotati ci insegnò a cavare il Pisarèlo, prosit!

 

La coltura della vite

Ma partiamo dal principio. Fino all’XI – XII secolo, il cremasco era una gemmazione di boschi intervallata da acque e un susseguirsi di vallis marza o marzide, insula lacus mosum dossum. Nel XIII secolo avvenne un massiccio disboscamento e così sulle pergamene appaiono i primi vigneti cremaschi documentati. Già nel 1097 la chiesa di San Benedetto di Crema aveva una proprietà presso Ricengo Ecingus. Passiamo al 1350, nelle corti di Ombriano, Offanengo Minore e Pianengo si sviluppa la coltura della vite in forma ridotta: solamente due appezzamenti di terra erano coltivate totalmente a vite, uno di quindici pertiche cum vitibus in filis spisis al Dosso Morone, l’altro a Offanengo Maggiore di ben cinque pertiche. Molto diffusa era la pratica di sposare l’arativo con la vite in filis raris.

 

Vitigni ad uso familiare

Le viti erano appoggiate ad aceri campestri (opia), l’uso dei sostegni e l’unione arativo-vite venivano indicati col termine piantata, esempi ve ne erano a Santa Maria della Croce, Sergnano, Palazzo Pignano, Scannabue e Casale Cremasco. I vitigni erano ad uso familiare in quasi tutto il cremasco, tale sistema mutò partire dall’età comunale sino a sostituirsi al così chiamato palo secco o alberello che era però limitato a piccoli appezzamenti di terra recintati in città e nel suburbio.

 

La coltura intensiva nei campi

La coltura intensiva a campi chiusi della vite era un necessità per difendere una coltivazione così preziosa dagli animali e dalle scorrerie degli eserciti. Si doveva arare la terra fra un albero e l’altro e concimarla una volta all’anno, al massimo ogni due: questa era la regola imposta dal monastero di San Benedetto che esigeva dai suoi affittuari il rudus, cioè che fossero rovesciati sulla terra palustra quattuor boni ruti , ossia quattro carri di concime.

 

La raccolta dell'uva e fogliame

La vigna di Romanengo

Correva l’anno 1882, con l’unità d’Italia si disgregò l’unità dei vitigni cremaschi. Da noi giunsero dalla Toscana, dal Piemonte e dal Sud della Penisola una corposa quantità di nuove specie di uve, così la rozza purezza del nostro prodotto quasi d’incanto cessò. Nel 1890 a macchia di leopardo le ultime vigne oramai boccheggiavano sotto i colpi della filossera, come la splendida splendente vigna di Romanengo: era la più bella del reame e svettava sulle bassure circostanti della Melotta. Ebbene, i vitigni quali la Balsamina, il Quarciano, le Rossere, la Settembrina, il Moscato e il Pignolo stavano esalando l’ultimo respiro.

 

Il Pignolo

La Balsamina e il Moscato erano anche uve da tavola, il Quarciano dava vino piuttosto scadente, avendo acino grosso e acquoso. La produzione migliore era data dal Pignolo, che fondamentalmente era un Pinot. In verità i nostri mastri vignaioli si accontentavano di ciò che Madre Natura e il buon Bacco ci donava, anche perché il vino e i vigneti facevano da cornice ai campi coltivati con altre produzioni. Probabilmente è per questo che non potenziarono l’arte e gli innesti che avrebbero fatto salire la qualità del vino nostrum.

 

L’ultimo vigneto cremasco

La messa a dimora della vite era posizionata fra campi su filari paralleli lungo la bisettrice direzionale sud-nord, nel terreno si scavavano piccole fosse e lì dentro si mettevano le tálee ricavate dalla potatura. Nell’incavo si aggiungeva alla vite un olmo, un acero, un pesco o un ciliegio che tenuti capitozzati sarebbero in seguito serviti al sostegno di tutto il filare, venivano eseguite soltanto un paio di sarchiature, nient’altro.

 

Le nuove tecniche

Gli ultimissimi vigneti furono tenuti in vita con metodi e tecniche nuove giunte assieme ai vitigni piemontesi e francesi. L’innovazione più importante, cioè la tecnica di un solo gambo e di un palo secco. Il primo innovatore cremasco fu l’ingegner Zanelli di Chieve. Ma un vigneto con le stesse caratteristiche fu piantato sotto le mura di Crema sul piano delle antiche trincee poste a mezzogiorno nei possedimenti dei fratelli Allocchio, era l’ultimo vigneto cremasco, una prece. Fonti: I Caalér da la lüna, Aldo Parati, 1990; Momenti di Storia Cremasca, Autori Vari, 1982; Moscazzano, Filippo Selis, 2006; Vivere di cascina, aa.vv., 1997; Crema a tavola, ieri e oggi, Gruppo antropologico cremasco, 2001.

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