07-04-2025 ore 20:08 | Cultura - Teatro
di Annamaria Carioni

'Accabadora': dall'opera di Michela Murgia vita, morte e mistero sul palco del San Domenico

La stagione di prosa 2024-2025 del teatro San Domenico di Crema domenica 6 aprile ha proposto lo spettacolo “Accabadora”, tratto dall'omonimo romanzo, edito da Einaudi, di Michela Murgia, che con quest'opera nel 2010 si è aggiudicata il prestigioso premio Campiello. Vita, morte, antiche tradizioni della sua terra natale, la Sardegna, raccontata in tutta la sua bellezza e in tutta la sua durezza rivivono nelle versione teatrale esattamente come nelle pagine della scrittrice, nata a Cabras, in provincia di Oristano, e scomparsa all'età di 51 anni nel mese di agosto 2023 a causa di un carcinoma incurabile.

 

Da sola in scena

In scena una sola artista: è Anna Della Rosa, attrice pluripremiata, con un ricchissimo curriculum tra cinema e teatro, che ha fatto parte anche del cast de “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. Unica interprete, in un palco popolato soltanto dalla sua potente presenza, da una panca, una sedia e un portavaso essenziali, quasi scarni, regala un lungo ed intenso monologo, dialogato con presenze che si materializzano davanti agli occhi del pubblico grazie al suo magistrale racconto. Dietro di lei, ad accompagnare la sua narrazione, sempre coinvolgente e a tratti emotivamente devastante, tanto da muovere alle lacrime in sala, uno sfondo illuminato con toni diversi, a seconda dei momenti più o meno drammatici della vicenda.

 

Un monologo dialogato

E' una narrazione originale in terza persona, ma ricca di dialoghi immaginari con accento sardo: l'attrice si posiziona spesso in proscenio e sembra chiamare in causa il pubblico quale interlocutore a conoscenza dei fatti. A tratti il racconto diventa la confessione che Maria fa della propria vita nel momento più drammatico, quello in cui, dopo aver vissuto “nel continente” a Torino, torna a casa, a Soreni, un borgo che in realtà non esiste, ma che ricorda la zona della Barbagia, e si trova costretta a fare i conti con la donna che l'ha cresciuta e che ora è sul punto di morte. Lo spettatore si trova fagocitato nel mezzo dei ricordi tra passato e presente e per chi non ha letto il libro non è semplice entrare immediatamente nelle dinamiche della storia.

 

Fill'e anima

Le vicende iniziano negli anni Cinquanta in Sardegna. La protagonista è Maria, una giovane donna dai lunghi capelli biondi, che indossa un vestito azzurro e inizia a raccontare la sua storia. Quarta figlia femmina di una vedova anaffettiva, viene ceduta dalla madre, che la considera un peso, a Tzia Bonaria Urria, la vecchia sarta del paesino sperduto in cui vivono. La bambina, che ha solo 6 anni, diventa la fill'e anima dell'anziana donna, che la considera come una benedizione voluta dal cielo per lei, che non aveva avuto figli suoi. Tra le due si instaura un forte legame madre-figlia, che tuttavia è avvolto da una vena di mistero: l'anziana è sempre vestita di nero, si chiude in lunghi silenzi e compie misteriose uscite notturne.

 

Uno sconvolgente flashback

Il racconto è un lento e sconvolgente flashback, nel quale Maria ripercorre il suo cammino di consapevolezza verso la verità e insieme a lei lo fa percorrere anche agli spettatori, fino a svelare il mistero, che la circonda: la sua seconda madre è un'accabadora, una donna che aiuta le persone anziane o malate o in fin di vita a morire, ponendo fine alle loro sofferenze. E' stata proprio lei a togliere il respiro con un cuscino a Nicola, fratello di Ardia, amico d'infanzia di Maria: il giovane ventottenne aveva una gamba amputata e non tollerava più di continuare a vivere. Questa scoperta provoca rabbia e dolore nella giovane.

 

Un percorso interiore

Il racconto di Maria è anche un percorso interiore: dall'incredulità e dall'orrore dello scoprire chi sia realmente sua madre, la giovane arriva a comprendere che il gesto di “acabar” ovvero finire chi si consuma tra atroci sofferenze fisiche e spirituali forse non è così orribile. La sua trasformazione è visibile: si spoglia del vestito azzurro e arriva con diversi cambi d'abito, sempre più cupi, ad indossare una gonna lunga, un giacchino e un copricapo totalmente neri, diventando ella stessa un'accabadora, dal volto funereo e cadaverico. La lettura teatrale lascia gli spettatori nel dubbio, se davvero Maria abbia soffocato la madre, che la supplicava di farlo o se quest'ultima alla fine sia morta per cause naturali.

 

Vita, morte e tradizione
L'opera teatrale, sapientemente diretta da Veronica Cruciani, esplora temi ancestrali come la morte, la vita, la famiglia, la tradizione e l'identità. Michela Murgia affronta questi argomenti con sensibilità e profondità, creando un'opera letteraria che è allo stesso tempo un omaggio alla cultura sarda e una riflessione universale sulla condizione umana. L'attrice sul palco restituisce ed amplifica questi contenuti, trasformandoli in espressioni del viso, in movimenti del corpo e in toni della voce che scuotono, emozionano e lasciano con il fiato sospeso.


Eutanasia o omicidio?
“Il nero serve a coprire il dolore, non a mostrarlo”. L'opera propone un complesso dibattito tra elementi opposti: giusto diritto ad una morte dolce e orrore per la decisione di procurarla anzitempo, colpa ed espiazione, protezione mistica delle forze celesti e scaramanzie della tradizione popolare millenaria. E' un racconto forte, che non può lasciare indenni gli spettatori, che a tratti è quasi opprimente con quel respiro di morte che si materializza, con il volto sfocato dell'accabadora, che compare sullo schermo, illuminato da luci rosse come il sangue o blu come la notte profonda. E' un incontro che lascia il segno, perché ci consegna il pensiero che “la morte è una cosa che si può toccare, che si può sentire, che si può odorare”. Gli scroscianti applausi finali riconoscono la bravura dell'interprete, ma sembrano anche voler esorcizzare l'inquietudine.