04-07-2014 ore 18:41 | Cultura - Storia
di Luigi Dossena

Historia et imago Cremae. Dall’Eliseo alle ciòche sino ai fasti dell’800: Crema racconta la sua millenaria cultura del vino

Narrano le cronache che già nel 1097 nelle corti delle nostre terre la cultura della vite era assai diffusa, in latino cum vitibus in filis spisis. Il vino cremasco era poco alcolico, chiaro, limpido e trasparente come un rubino, aveva un sapore salsoso e frizzante. I vinificatori cremaschi usavano stendere i grappoli d’uva, la migliore, sui graticci e li lasciavano appassire.

 

Cremaschi all’Eliseo

In seguito verso Natale venivano pigiati ottenendone così un vino prelibato che veniva imbottigliato a primavera, con la marzolina luna nuova. Pensate, il senatore cremasco Luigi Griffini (siamo sul finire dell’800) recandosi a Parigi con una commissione italiana in un pranzo ufficiale offerto all’Eliseo ebbe la gradita sorpresa di vedere nella lista dei vini serviti a tavola bottiglie di vin cremasco; precisamente da Madignano che con il nettare di Casale Cremasco era la località dove la produzione era la più corposa oltre che la migliore; il più tipico dei vini tipici cremaschi.

 

Le colline

Molti cremaschi che come me hanno i capelli grigi ricorderanno le memorabili etichette che fecero il giro del Belpaese con scritto stampato: Vino delle Colline di Trescore Cremasco. …Erano ridenti le colline di Trescore Cremasco, chissà, forse in un'altra vita le rivedremo quelle belle collinette solcate dai filari e dai vigneti, baciate dal sole, inondate dalla luce per sora uva cremasca et frate tralcio nostro. Oltre i crinali delle collinette di Romanengo, Chieve, Moscazzano e del Marzale si potevano scorgere le balze dei monti orobici rigati dall’arativo e da filari appoggiati ad aceri campestri in fili raris. I campi a distesa erano contornati da filari ad alberi alternati a palo secco e ad alberello. Siamo già nel 1350.

 

La produzione

Il vino prodotto con quelle uve aveva la denominazione generica di Cremaschì della quale si distinguevano le varie qualità: Quercià, Pignòla, Quercianèl, Barzanì. Questi erano a bassa gradazione alcolica e un poco aspri. L’uva Quercià aveva lunghi grappoli e acini grossi con colorito bruno chiaro, il Pignòl aveva grappoli corti e acini piccoli, stipati e di colorito scuro. Poi vi erano altri tipi di uve: la Berghemina, la S’ciàà, la Ruséra, il Lambrösc le cui viti si facevano salire sui rami delle alte querce. Poi vi era un’uva primaticcia chiamata la Viàdiga. Dal Piemonte erano state importate altre viti: fra cui la fresia, la barbera e il Pinot.

 

Una cascina di Sergnano nel 1922 (dipinto di Luigi Dossena)

Le ciòche cremasche

Nei campi correvano lunghi filari sostenuti da alberi chiamati in dialetto òpe, innumerevoli pali correvano per vaste estensione di terreno chiudendolo con delle siepi. In mezzo vi era una capannuccia di paglia per il guardiano chiamato al casòt. A ottobre aveva luogo la vendemmia; le ragazze con in mano dei cesti in vimini chiamate curbèle entravano nella vigna cantando e staccando i grappoli che così uno dopo l’altro andavano a riempire la bigoncia. Verso sera l’uva era tutta sotto il porticato dove i bambini la pigiavano a piedi nudi nei recipienti. In seguito il mosto veniva versato nei tini e nelle botti, passati otto giorni era il tempo della svinatura: in questa occasione erano tutti invitati a bere, questo buontempo era chiamato le ciòche cremasche. Il vino nuovo si beveva in tazzarielle o in bicchieri chiamati bocaline e si poteva acquistare in numerosissimi negozi aperti in tutta Crema.

 

La produzione dell’800

Il vino cremasco era importantissimo nell’economia domestica, perché era indispensabile dopo una giornata di massacrante lavoro per i contadini. Un tempo sul nostro territorio la produzione vinicola era altissima; nell’800 era di 65.000 ettolitri, ma già verso la fine dello stesso secolo scomparve quasi definitivamente, nel giro di pochi anni a causa delle malattie delle viti come la filossera e la peronospera. Negli anni ’50 del ‘900 l’uva cremasca si poteva trovare in pochi frutteti ancora esistenti, nei pergolati, nei giardini e negli orti delle cascine. Con l’avvento delle cosiddette viti americane, più resistenti alle malattie, sì soppiantò la nostra uva indigena. Fonte Madignano – Memorie Storiche Riccardo Ghidotti 1976.

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