Non deve essere un caso la scelta di questo titolo, questo richiamo all’antico, quasi al sacro, probabilmente a voler sottolineare l’importanza di questa istituzione che da secoli regola le relazioni tra le persone: la famiglia. Non penso che la vicenda (che nasce da fatti realmente accaduti) che ci viene raccontata nel film sia semplicemente una storia di feroce violenza familiare. Io ci ho letto qualcosa di più profondo e disperato: la ricerca spasmodica di un qualcosa che ci appartiene (ci deve appartenere), quell’amore che fa stare bene e che per tutta la durata della vicenda sfugge, scivola, pare ripresentarsi per poi evaporare.
L’assenza di ossigeno
Un bisogno di quella tenerezza che sboccia (dovrebbe sbocciare) senza chiedere il permesso e che appartiene ad ogni forma di vita che si dona; e nella famiglia, nelle relazioni che si intessono nel quotidiano non è forse naturale oltre che necessaria? Eppure la famiglia che riunisce Franco (il padre), Licia (la madre) e i due figli Alessandro e Gigi si inabissa nel “non-senso”, c’è una fame d’amore, di serenità, di dolcezza che rimane soffocata da una violenza che si dilata fino ad azzerare lo spazio; si percepisce spesso l’assenza di ossigeno durante la visione del film: manca l’aria.
Lo sguardo dei piccoli
Questa bulimia di tenerezza emerge potente nelle scene in cui ci si ritrova intorno alla tavola per consumare il pasto, Gigi in particolare è espressione di quella speranza che vuole andare sempre oltre, anche quando non ci sono solo le apparenze ma evidenti rappresentazioni di una violenza che annulla ogni dignità. Il film corrode lo spettatore; non è un film che sorprende perché le storie di violenza familiare sulle donne sono note (purtroppo), sono fatti di cronaca abbondantemente conosciuti e rappresentati nel nostro quotidiano, ma forse la cosa che disturba è lo sguardo dei piccoli di cui poco si parla nelle cronache. Ad Alessandro e Gigi infatti non vengono fatti sconti, la sera sul letto non ascolteranno la lettura di favole che li aiuteranno a prendere serenamente sonno sognando anche magari mostri che restano comunque nella loro immaginazione; a questi due bambini viene tolto il canale della fantasia e gli viene consegnata la realtà incomprensibile di un amore che fa male, di un amore che urla, che violenta, che picchia, che disturba, che si insinua nelle pieghe di flebili sorrisi per introdursi lentamente nell’anima, fragile, dove il seme del male non fatica a radicarsi.
L’evoluzione delle emozioni
Anche loro dovranno crescere e dovranno imparare a convivere questo pesante fardello: Alessandro sceglie di crearsi una corazza che aumenta di spessore fino a renderlo quasi impermeabile, Gigi invece dilata questo male nel suo animo e non può trattenerlo diventa schiavo di una dimensione che non gli appartiene ma che lo porta a cercare un mondo per dargli espressione, deve liberarsi in qualche modo di questo macigno: non sempre l’animo umano sa e può reggere la violenza soprattutto quando non la comprende e se la trova ingombrante in cuore che desiderava altro, che si aspettava altro. Sapiente la regia di Francesco Costabile; mi hanno molto colpito le sue scelte stilistiche e la fisicità che ha richiesto ai suoi attori che si muovono e si relazionano con i loro corpi quasi cercando di scatenare scintille che possano accendere una luce in un appartamento troppo buio, probabilmente metafora di una famiglia che non riesce a trovare una via di uscita. Menzione a Francesco Gheghi (Gigi) che ha raggiunto in questa interpretazione (premiata a Venezia) uno spessore notevole, una tensione emotiva che lo avrà credo profondamente segnato tanto da arrivare, non solo a commuoversi durante la premiazione a Venezia, ma soprattutto a ringraziare i suoi genitori che gli hanno garantito un’infanzia serena dove poter coltivare i suoi sogni. Francesco è riuscito a rappresentare in maniera plastica l’evoluzione delle sue emozioni con un disperato bisogno di superare anche solo l’idea di poter somigliare a quel padre tanto amato ma allo stesso modo odiato!
La speranza
Di grande emozione la scena in carcere in cui Gigi non riesce a reggere lo sguardo “amorevole” del padre e per l’ennesima volta si arrende al possibile cambiamento. Ma non sono da meno gli altri tre colleghi che lo accompagnano in questo dramma familiare: Barbara Ronchi con due splendidi occhi che narrano; Francesco Di Leva (il padre) che naufraga nella sua umanità distorta e Marco Cicalese (Alessandro) che rappresenta il suo dramma interiore in maniera tanto discreta quanto efficace. Non è facile abbandonare la sala dopo questa proiezione perché è il film che non ti abbandona in quanto ti lascia un velo (non troppo sottile) di amarezza, di malinconia e di un infantile desiderio di sperare in un finale diverso ma ahimè forse proprio impossibile.