Per arrivare in Europa, i migranti provenienti dall’Africa devono attraversare due deserti: uno di sabbia (il Sahara) e uno di acqua (il Mediterraneo). Il film Io Capitano di Matteo Garrone ricorda il fumetto Clandestino (Mondadori, 2017) di Eoin Colfer, Andrew Donkin e Giovanni Rigano. Seydou e Moussa, due ragazzi senegalesi, lasciano il loro Paese per cercare di raggiungere l’Europa, sognando di diventare cantanti che firmano autografi ai bianchi.
Un pugno nello stomaco
L’ultimo film di Matteo Garrone, proprio come il precedente Gomorra (basato sull’omonimo romanzo di Roberto Saviano), è un pugno nello stomaco. Ma un pugno di qualità e assolutamente necessario. All’ottantesima mostra del cinema di Venezia, Io Capitano ha vinto il Leone d’Argento alla regia e il premio Marcello Mastroianni all’attore protagonista Seydou Sarr. Dopo il grandissimo successo di pubblico e le recensioni positive della critica, sarà proiettato nelle scuole italiane per sensibilizzare i giovani sul tema dell’immigrazione. E il fatto che Io Capitano abbia per protagonisti non due uomini adulti, ma due sedicenni che vogliono realizzare i loro sogni, aiuterà senz’altro i nostri ragazzi ad empatizzare con loro.
Garrone colpisce ancora
Io Capitano, come Gomorra in passato, ha quasi uno stile documentaristico (si veda anche Fuocoammare, il documentario del 2016 di Gianfranco Rosi sugli sbarchi a Lampedusa). I toni però non sono didascalici e il regista non cerca di strappare lacrime troppo facili. Gli sceneggiatori si sono basati sulle storie reali di emigrazione dall’Africa di Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia. Ad aumentare l’effetto realistico contribuisce il fatto che il film non sia doppiato. È girato in lingue originali: francese del Senegal e dialetti arabi di vario genere. Io Capitano tuttavia parla spesso per immagini di tragedie, paesaggi abbaglianti, miraggi nel deserto. I dialoghi sono relativamente pochi. Ed ecco perché seguire i sottotitoli non è faticoso.
Attraversare due deserti
Seydou e Moussa e i loro compagni di sventura affrontano giorni interi di cammino sotto il sole del Sahara, solo con qualche bottiglietta d’acqua e a volte senza nemmeno le scarpe. Fra le dune affiorano i cadaveri di quelli che non ce l’hanno fatta. Durante i chilometri percorsi (ammassati come bestie da macello) sopra i cassoni di vecchi camion, chi viene sbalzato fuori viene lasciato a morire nel deserto: nessuno si ferma per recuperarlo. Tutto ciò sempre con le armi dei trafficanti di uomini puntate contro; e nella costante paura degli assalti dei predoni, abilissimi nell’individuare ogni posto dove i migranti nascondono le banconote. Chi non ha abbastanza soldi per soddisfare o corrompere i criminali finisce nei centri di detenzione in Libia, gestiti dalle peggiori mafie. I sopravvissuti che raggiungono le coste del Mediterraneo devono pagare (magari facendosi inviare altro denaro dalle famiglie) per partire a bordo di bagnarole sgangherate, con provviste che bastano solo per pochi giorni. Molti di loro non sanno nuotare, non hanno mai nemmeno visto il mare, non sanno cosa sia una piattaforma petrolifera o un elicottero della Guardia Costiera.
L’audacia della speranza
L’estenuante viaggio dei protagonisti alla ricerca di un futuro migliore si conclude con una specie di finale aperto, forse un lieto fine. Il film di Matteo Garrone è attualissimo: oggidì il dibattito televisivo è infuocato dalla controversa proposta di far versare, a una parte dei migranti sbarcati in Italia, circa 5000 euro di cauzione per evitare di essere trattenuti in apposite strutture. Alcuni commentatori hanno perfino ipotizzato che il titolo Io Capitano possa essere non solo un’allusione al tormentone dell’Attimo Fuggente (“Oh capitano, mio capitano!”), ma anche una sottile frecciatina a Matteo Salvini. Vi ricordate come si faceva chiamare il leader leghista pochi anni orsono, quando era all’apice della sua popolarità?