19-03-2016 ore 19:54 | Cronaca - Aleppo
di Angelo Tagliani

Guerra in Siria. Aleppo, intervista a padre Ibrahim Alsabagh

Dopo un lungo silenzio, siamo riusciti a metterci in contatto con padre Ibrahim Alsabagh, parroco di Aleppo. Mentre si susseguono gli appelli del Papa alla comunità internazionale per la pace in Siria, cosa sta accadendo in queste ore, la tregua sta ottenendo risultati positivi? “In questi giorni è arrivata l’acqua a diverse zone. Per noi è un grande segno di speranza, dopo più di 50 giorni di assenza. C’è la tregua, diverse milizie hanno aderiti ad essa e la rispettano mentre altre milizie non la rispettano ma continuano a lanciare missili sulle abitazioni e sulle strade. L’elettricità funziona per qualche ora al giorno: è un grande successo dopo cinque mesi di assenza. Insomma, la situazione oggi è sicuramente meglio di quella di un mese fa, ma speriamo in un cessate il fuoco perenne e in una pace duratura. La gente, che vive nella sofferenza di più di cinque anni, non ce la fa più”.

 

Come vive la comunità cristiana di Aleppo?

“Nonostante la sofferenza e il grande bisogno, le persone non si chiudono nell’egoismo e non pensano alle proprie necessità. Ho fatto notare loro come nonostante le nostre piaghe, il numero alto di poveri, di vedove e di orfani, di anziani senza sostegno, di tante famiglie senza entrate mensili, c’è uno spirito di solidarietà e di vera carità. Diversi soccorrono gli anziani che vivono nei loro quartieri; aprono le loro case per accogliere le famiglie senza tetto nonostante lo spazio minimo. Nell’ultima settimana, cinque famiglie di quelle che hanno due case ad Aleppo o quelle che vivono fuori, ci hanno dato la chiave di casa per poter accogliere famiglie che si trovano nel bisogno o senza tetto. Quello che vedo io, come parroco, è un’immagine bellissima di una comunità viva nella carità, che respira la misericordia. È una grande consolazione”.

 

Nella sua parrocchia è mai maturata la tentazione di impugnare le armi e formare delle milizie per combattere l’Isis?

“Difendersi da un pericolo in modo personale o comune è un diritto umano fondamentale dell’uomo, che non può essere contestato. Come Chiesa non incoraggiamo il ricorso alle armi, perché armarsi è una spada a doppio taglio. Diversi cristiani che vivono in altri paesi vicini e che hanno iniziato a portare le armi per difendersi da nemici che li assalivano sono finiti ad ammazzarsi fra di loro. In ogni caso, da noi il servizio militare è obbligatorio. Così, volendo o no, abbiamo diversi dei nostri giovani che fanno parte dell’esercito regolare e che offrono ogni giorno tanti sacrifici per difendere la patria e anche le loro famiglie. Abbiamo diversi di loro che, arruotolati nell’esercito regolare, combattono, come tutti gli altri cittadini, per il rispetto della libertà e per difendere il popolo. Bisogna notare però, che ad Aleppo comunque, la maggior parte dei cristiani ha rifiutato questo progetto. Sono pochi quelli che si sono armati, formando gruppi o milizie per difendere le loro famiglie e le loro case e sono riusciti in una parte, con tanti sacrifici, a fermare l’avanzata di gruppi fondamentalisti, come l’Is”.

 

Cosa spinge voi sacerdoti a rimanere nel Paese nonostante la guerra e l’alto rischio per la vostra incolumità?

“Una carità senza limiti e senza condizioni, una carità che non si ferma al proprio bene o interesse, perseverante e continua, pronta a pensare e a preferire il bene ultimo degli altri, una carità che rende il sacerdote pronto a dare anche il sangue per i fratelli. Una carità che può rendere un uomo pieno di paure, coraggioso per affrontare tutti i pericoli”.

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