06-11-2014 ore 18:27 | Rubriche - Musica
di Angelo Tagliani

The endless river. Poetico, malinconico, con citazioni di brani immortali e splendidi assoli. La recensione in anteprima dell'ultimo disco dei Pink Floyd

Ufficialmente uscirà domani, ma abbiamo avuto la possibilità di ascoltare in anteprima il nuovo, attesissimo album dei Pink Floyd, The endless river. La prima impressione è che si tratti di un album discreto, spesso poetico, molto malinconico, che migliora ad ogni ascolto. Il quindicesimo disco è prodotto da David Gilmour, Phil Manzanera, Martin Glover e Andy Jackson e si basa su registrazioni che risalgono al 1994, a The Division Bell (il titolo riprende gli ultimi versi di High hopes) e comprende brani per lo più strumentali, il tutto mixato come un omaggio al tastierista Richard Wright scomparso nel 2008.

 

Synth, echi e ritmi sospesi

L'album dura 65 minuti e ha due versioni, standard (con 18 pezzi) o quella che abbiamo ascoltato noi, la deluxe, che contiene 21 brani, divisi in 4 sezioni, come le stagioni. Il disco si apre con Things Left Unsaid (4:26), oppure It’s What We Do (6:15), con synth, echi e passaggi ritmici ripresi da Welcome to the Machine oppure da The wall: accenni, riproposizioni e citazioni che sembrano provenire da un'altra dimensione, come un lontano ricordo, non una riproduzione scolastica.

 

La memoria

Non manca la griffe di David Gilmour, che su tappeti sonori che sembrano stendersi all'infinito ricama assoli di ottima fattura. Nella seconda parte, da segnalare Anisina (3:10), che in turco significa 'in memoria di' e oltre alla chitarra di Gilmour conta sulle tastiere di Wright, la batteria di Nick Mason ed il sax tenore ed il clarinetto del musicista israeliano Gilad Atzmon. Il pezzo risale al 1993 ed era nato come composizione per piano, intitolata The hymn. On Noodle street ha invece un sound anni Ottanta, si apre con uno splendido riff di pianoforte di Wright e alcune parti che suggeriscono l'arte di David Byrne e dei Talkin Heads.

 

Il potere dell'immaginazione

La terza e quarta parte si fanno più cupe, ritornano in continuazione all'immortale riff di Another brick in the wall, accennano alla “perduta arte della conversazione” e contengono la voce computerizzata dell'astrofisico Stephen Hawking, che oggi ricorda la promessa della tecnologia di “costruire l'impossibile”. In Keep talking, nel 1994, diceva: “Per milioni di anni, l'umanità ha vissuto proprio come gli animali. Poi è successo qualcosa che ha scatenato il potere della nostra immaginazione”.
 

La musica, oltre le parole

La chiusura dell'album offre l'unico parlato di Gilmour: Louder than words (6:25) riprende Sorrow ed è un epitaffio dei rapporti tra i membri del gruppo. Scritta da Polly Samson, la moglie di Gilmour, è il suo modo di spiegare che i Pink Floyd non erano in grado di parlarsi, ma suonando i loro strumenti insieme, alla fine utilizzavano un linguaggio louder than words, più forte, in questo caso più profondo delle parole. La versione deluxe si chiude con altri due brani strumentali criptici, TBS9 e TBS14 che, ricordando i vizi di gioventù, potrebbe essere l'acronimo di the big spliff, ultima concessione alla creatività prima dell'energica Nervana.

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